Un'invisibile linea sul Lago Vittoria

E' prestissimo, ancora buio, e sto viaggiando verso il Lago Vittoria a bordo dell'auto di rappresentanza dell'ambasciatore, da sola con il suo autista personale.

Non ho potuto evitarlo. E' stato l'ambasciatore stesso che ieri sera, mentre mi sentiva chiedere informazioni a Luca su come raggiungere il Parco da cui prendere la barca per l'isola degli scimpanzé, si è voltato e ha detto senza troppi fronzoli:

Domattina il mio autista ti aspetta in giardino alle 5.30. Puoi chiedergli di tornarti a prendere nel pomeriggio”. La reazione di Luca mi ha fatto intendere che era un gesto di grande riguardo: impossibile dire semplicemente: “No grazie, faccio da sola....”.

Ora, un senso di colpa misto a sollievo. In effetti, mi sarebbe stato impossibile arrivare dall'ambasciata fino al lago a quest'ora. Non ci sono matatu, non ci sono boda-boda, i taxi arrivano solo se chiami il tassista sul cellulare (e ieri sera era tardi e non ci ha risposto nessuno...).

L'autista è molto dolce, simpatico; durante più di un'ora di viaggio, mentre l'alba sale sulle capanne della periferia e poi finalmente sull'acqua del lago, mi parla di Kampala e dell'ambasciatore (lui ovviamente ne ha un'opinione altissima...). Quando mi lascia di fronte all'ingresso del parco non riesce assolutamente a capire per quale motivo io continui a rifiutare la sua offerta di tornarmi a prendere nel pomeriggio. Alla fine cede, ma non prima di avermi messo tra le mani il numero di cellulare di Tom, un suo caro amico tassista, e avermi fatto promettere che lo chiamerò (cosa che, ovviamente, non ho la minima intenzione di fare. A costo di cambiare 4 matatu diversi...).

Sono all'Uganda Wildlife Education Centre di Entebbe, una specie di parco zoologico che gestisce anche le visite all'isola degli scimpanzé di Jane Goodall. Sono decisamente molto in anticipo e Raffa non c'è: è rimasta in città a lottare per il suo biglietto aereo, ma sono contenta che abbia insistito per farmi sentire libera di venire lo stesso. Ho bisogno di un assaggio di pace, prima di tornare in Italia e affrontare tutto di nuovo. Ho bisogno di stare da sola.

E poi in un angolino di me c'è quel sottile prurito dell'essere stata così terribilmente vicina a poter vedere finalmente i tanto desiderati gorilla di montagna.... senza averlo potuto fare (né voluto, visto che 500 dollari per un'escursione di un giorno in foresta, dopo quello che abbiamo visto, è un controsenso troppo forte).

Il sole è ancora basso e il lago è bagnato di nebbia. Faccio un giro lungo la spiaggia: un'orgia di aironi, garzette e zanzare. Tante piccole canoe scavate nei tronchi oscillano sotto magri pescatori che lanciano le proprie reti nell'acqua, come grandi coperte per il lago freddo.

Sono talmente in anticipo che ho il tempo per farmi anche un giro dentro al parco. Non c'è ancora nessuno e le scimmie saltano libere sulle panchine, urlando come pazze. Qualcuna mi lancia addosso frutta dal folto degli alberi.

Il nostro “mezzo” è una minuscola bagnarola di metallo, a motore. Siamo in 4, un canadese e due americani. Giubbotti di salvataggio obbligatori (anche se immagino siano completamente inutili per salvarsi dai coccodrilli...).

Dopo un'ora e mezzo di navigazione arriviamo all'isola. Jane Goodall ha istituito quest'area protetta per accogliere gli scimpanzé orfani e incapaci di reinserirsi nel loro ambiente. Qui possono vivere in un contesto seminaturale: un'intera isola di foresta a disposizione, niente predatori, niente deforestazione, niente bracconieri, e un piccolo sostegno per procacciarsi il cibo. Unico prezzo da pagare: i pochissimi turisti ammessi nell'arco di una giornata possono percorrere un breve percorso nella foresta e interagire con loro. D'altra parte questo è l'unico modo per garantire l'autosostentamento del parco...

Qualche capanna di paglia per mangiare e prendere il tè, un paio di tende in riva al lago immerse nel volo di migliaia di piccoli uccelli tessitori, e nient'altro. C'è una pace assoluta.

Non so cosa darei per restare almeno una notte. Invece domani sarò irrimediabilmente in Italia.

Al ritorno siamo solo in due, io e il canadese.

Passiamo davanti a un'isola di pescatori. Baracche di lamiera, barchette accatastate, pesce secco, gente disperata e nient'altro. E' una di quelle stesse isole di pescatori che mi hanno tanto scosso un anno fa, guardando il documentario “L'incubo di Darwin”, denuncia aperta dello scempio ecologico e umano che si compie ogni giorno proprio qui, e che ognuno di noi contribuisce inconsapevolmente ad alimentare. E' assurdo essere qui ora, toccare con mano quelle stesse immagini...

Le multinazionali hanno introdotto da qualche anno il Persico del Nilo nelle acque del lago.

In poco tempo, il secondo lago più grande del mondo, con tutta la sua immensa biodiversità, ha dovuto soccombere alla nostra fame di pesce a buon mercato: la maggior parte delle specie endemiche del lago si sono estinte, l'ecosistema è stato completamente stravolto. E i persici hanno continuato a crescere e moltiplicarsi.

La popolazione del posto ha cominciato a dedicarsi completamente alla pesca e alla lavorazione del pesce ed in poco tempo sono sorte queste isole-baraccopoli, in cui la gente vive in condizioni disumane. Spesso i pescatori muoiono sbranati dai coccodrilli, lasciando alle proprie mogli l'unica alternativa di prostituirsi per vivere, e incrementare così ancora di più la diffusione l'AIDS, che in questa zona sta diventando una specie di macabra costante.

E che cosa ottiene questa gente in cambio del proprio sacrificio? Armi.

Armi per le loro guerre. Interi cargo pieni di armi arrivano dall'Occidente, vengono svuotati e poi riempiti di tonnellate di pesce per le nostre tavole inconsapevoli. Poi ripartono come se nulla fosse.

Il nostro barcaiolo si sofferma solo un attimo, da lontano. Non sia mai che il turista di turno possa rimanere turbato in qualche modo...

In effetti, se non “sai già”, non hai modo per capire e nemmeno soltanto per intuire qualcosa.

La barca scorre via veloce e resti – ancora una volta- inconsapevole di ciò che sta succedendo.


All'improvviso, nel bel mezzo dell'immensa distesa di quel falso-mare, la barca si ferma.

Attimo di panico. E ora? Rotto il motore? Benzina finita? Vuole derubarci e buttarci in pasto ai coccodrilli?

No. Ci guarda sorridendo e ci annuncia che, in quel preciso istante, stiamo galleggiando sull'equatore...


Contrasto

Non so bene come sia successo, ma improvvisamente ci ritroviamo a cena in uno dei ristoranti più chic dell'Uganda, dentro il casinò, con l'ambasciatore italiano, il suo stagista, i due Caramba e un industriale italiano (Bertolli.... quello dell'olio!) che ha più soldi che capelli in testa.
Nessuno si era preso la briga di avvertirci DOVE saremmo andati a cena, e appena mettiamo la testa fuori dai vetri nero-fumo del macchinone fantascientifico di Enrico uno sguardo pieno di panico scorre rapido tra me e Raffa: abbiamo realizzato che abbiamo addosso gli stessi vestiti sporchi e le stesse scarpe vecchie che ci portiamo dietro da un mese...
Senza dire una parola abbiamo condiviso per qualche secondo il peso di quel mattone sullo stomaco, il senso di inadeguatezza e di imbarazzo. Ma, magicamente, è durato solo un attimo. La situazione, il luogo e la compagnia sono così irreali, così assurdamente lontani da quello che abbiamo visto e vissuto nell'ultimo mese che è come se il cervello accantonasse la percezione di tutto in un angolo. Il contrasto sotto i nostri occhi è troppo forte per riuscire a curarci più di tanto del nostro aspetto.
Bellissimo ristorante. Cucina italiana ma stile orientale, ampio patio con morbidi tendaggi, camerieri in livrea, piccole candele profumate e un tappeto d'erba su cui vorrei tanto potermi sdraiare. Bertolli fa sfoggio delle sue nozioni di galateo e decide la disposizione dei posti a tavola: l'ambasciatore al centro, noi due donne ai lati, lui stesso di fronte all'ambasciatore, lo stagista alla sua sinistra e i due carabinieri dall'altra parte. Io intanto comincio a cercare di prendere il tutto con ironia.
Dopo il vago imbarazzo del “e-ora-cosa-scelgo-dal-menù”, la cena scorre via lenta, fra surreali discorsi di investimenti finanziari, racconti di ville alla Karen Blixen e battute di caccia a cavallo nella campagna keniota, spaccati di vite inimmaginabili attraverso l'Africa, e sottili autoesaltazioni della propria ricchezza... (del tipo: “sai, far studiare mia figlia a Cambridge mi costa 70mila euro all'anno”...). Ma devo ammettere che il vecchio Bertolli, nonostante soldi e potere (è a capo della forza di sicurezza che protegge tutti i corpi diplomatici presenti in East Africa), ha le palle. A 25 anni si è innamorato dell'Africa e ha deciso di mollare l'azienda di famiglia e tutta la sua ricchezza pur di poter passare il resto della sua vita in Kenya. E così ha fatto. La famiglia lo ha diseredato completamente e lui è ripartito da capo quaggiù, creandosi una ricchezza ancora più grande con l'olio di palma. E' buffo, ha passato talmente tanti anni parlando inglese che il suo italiano è irriconoscibile. Le parole sfuggono alla memoria, l'accento è strascicato in stile londinese, i modi sono calmi e misurati e non c'è più neanche un vago ricordo della gestualità italiana. In effetti Bertolli sembra più un Lord inglese che un industriale di Lucca...
Io li guardo e li ascolto tutti come attraverso un vetro. E mi chiedo sempre più pressantemente che diavolo sto facendo lì.
Dopo cena ci spostiamo di là al casinò, perché l'ambasciatore vuole fare la sua salubre e immancabile puntatina al Blackjack.
Quella sala è Il Contrasto per antonomasia, l'emblema delle incolmabili distanze, la consapevolezza lucida dell'irrimediabilità del mondo, il cazzotto alla bocca dello stomaco...
Misteriosi e ben vestiti personaggi europei, filippini, indiani, siedono serenamente davanti ad una roulette o ad un tavolo da Blackjack, perdendo milioni in decine di minuti, sotto le mani abili di croupier ugandesi in doppio petto e guanti bianchi, che sembrano aver dimenticato (anche loro)
per una sera le atrocità e le pene del proprio Paese.
Lo stesso ambasciatore italiano perde sotto i nostri occhi almeno 6mila euro in meno di mezz'ora. “Stasera non sono molto fortunato”, dice alzandosi dal tavolo con uno sguardo che è più o meno lo stesso che potrei avere io dopo aver pestato una cacca di topo.
Ed è impossibile fare a meno di pensare a quanti sono quei soldi... fuori da lì, da quelle quattro ridicole mura di lussuoso e assurdo isolamento.
Penso alla faccia di Manuela, alla fame di Fortunate, alle costole di Christine, alla mano di Sebastian, alle scuole, agli ospedali, alle pompe per l'acqua...
Mi viene una rabbia così forte che vorrei salire in piedi su uno di quei tavoli e mettermi a urlare “Brutti stronziii” a tutta la sala.
Forse ho perso il senso della misura, ma mi viene proprio da vomitare.

Kampala: due caramba in Uganda

E' strano quanto possa essere diversa un'impressione a distanza di tempo. L'altra volta Kampala mi era quasi piaciuta. Ok, ne avevo avuto un assaggio sfuggente, notturno, vago... e forse erano stati l'improvviso calore dell'Africa, le sponde del lago, gli odori forti e i colori ad avere il sopravvento, a modellare i giudizi.

Ora è tutto diverso, la città ci aggredisce, ci balza addosso come un cane rabbioso.

Sembra un salto nel tempo. L'effetto è debilitante.

Caos, casino di macchine, motorini, clacson, ingorghi, camion, gente, grattacieli, palazzi, centri commerciali. E matatu, ovunque, incastrati in ogni buco di spazio rimasto vuoto.

C'è una Kampala periferica che ha ancora un leggero sapore di Africa, ma c'è anche una Kampala moderna, civilizzata, assordante, affollata, tossica.

La cosa più stridente è che non c'è preavviso, nessuna sfumatura, nessun passaggio graduale. In poche decine di chilometri si passa dalla boscaglia ai grattacieli, dalla privazione alla sovrabbondanza, senza neanche il tempo di capire. L'effetto è quello di un enorme buco nero in mezzo al cuore verde di un Paese. Come un foro di pallottola.

Fuori da Kampala non si trova niente. A Kampala si trova tutto (o quasi).

Con lo stomaco ancora strabuzzante di spaghetti, ci lasciamo trascinare da Luca e Enrico in giro per la città, a bordo di un super SUV con vetri scuri e aria condizionata; non ci laviamo da più di due giorni, siamo terrose, stanche e stranite. Direi inadatte.

Ma loro sono carini, vogliono portarci a “prendere l'aperitivo” (sembra un'espressione così lontana...), sono contenti: avere due italiani nuovi, e per giunta donne, con cui parlare è davvero un evento.

Ci sediamo ad un bar, sul tetto di un enorme centro commerciale. C'è addirittura l'assurdità di una micropiscina, lassù su quel tetto.

Chissà perché, dentro di me immaginavo due italiani irriconoscibili, consapevoli, quasi ugandesi di adozione. In fondo sono qui da così tanto tempo...

Loro invece mi smentiscono in fretta. Non fanno altro che sgranare gli occhi: non riescono a credere che possiamo DAVVERO bere quella birra nel bicchiere che il cameriere ci ha portato al tavolo, invece che berla direttamente dalla bottiglia (e rigorosamente con la cannuccia!).

Ma siamo matti?!? Voi non vi rendete conto delle malattie che ci sono!!! Potete prendervi come minimo il colera.... E poi l'Ebola, che ogni tanto scappa fuori... Lo sapete che basta una sola stretta di mano per trasmetterla? e che gli organi si spappolano uno dopo l'altro e la gente muore dissanguata dall'interno fra atroci sofferenze??”

Cooosa??? Non vi siete neanche lavate le mani??”

Inutile tentare di tracciare loro un'immagine di dove e come abbiamo mangiato e bevuto negli ultimi tempi e di come probabilmente i nostri anticorpi si siano ormai trasformati in piccoli super-eroi... No, non capirebbero. Loro sono rinchiusi nel loro microcosmo italiano. Vivono in case italiane, guardando programmi televisivi italiani e mangiando cibo italiano (non hanno mai assaggiato neanche l'ignassa, che è la base dell'alimentazione dell'intera nazione!). Non prendono mezzi pubblici, non sono mai saliti su un matatu (e mai oserebbero! Che siamo matti?!?), non vanno al mercato, non conoscono la lingua locale, non ascoltano musica africana...

Praticamente sono in Uganda senza saperlo.

Non posso fare a meno di dire che Luca e Enrico sono stati semplicemente splendidi: gli italiani più ospitali, generosi, accoglienti e disinteressati che mi sia mai capitato di incontrare. E che sono riusciti a rendere un po' più tollerabile il nostro ritorno in Italia (impresa non facile). Ma non riesco a credere che si possa vivere così a lungo in un Paese, o meglio SCEGLIERE di viverci, rimanendo così totalmente impermeabili a ciò che ti circonda.

Spaghetti, pizza, mandolino... e un bagno pulito

Luca, il carabiniere dell'ambasciata che era venuto a prenderci al nostro arrivo all'aeroporto - una vita fa...- ci aspetta - o almeno così dovrebbe essere - ad una fermata periferica del Gaaga. Il pullman ci molla nel bel mezzo di una super-strada degna della capitale, con autocarri e matatu sfreccianti. Dopo una lite con l'autista, che si rifiutava di aprirci il portellone dei bagagli perché “troppo pericoloso in mezzo al traffico”, ci ritroviamo sulla strada, schiacciate da una quantità indecentemente lievitata di borse, pacchi, cesti, zaini, sacchetti (c'è addirittura un'intera valigia rigida piena di frutta e patate dolci da portare in Italia...). Di Luca neanche l'ombra. I boda-boda boys cominciano a farsi insistenti: vogliono portarci. In fondo, come dargli torto: è impossibile credere che possiamo in qualche modo riuscire a proseguire a piedi con tutta quella roba (in realtà, volendoci riflettere, a me sfuggirebbe anche come loro possano pensare di caricare tutto quanto sui loro motorini, ma tant'è...).
Alla fine, dopo un paio di telefonate e un mezzo giro di perlustrazione nei dintorni, ecco Luca, con la sua macchina rossa. “Fa strano” salire a bordo, ci fa un effetto extra-lusso, quando in realtà, pensandoci bene, non è altro che una macchina moderna.
Ci porta a casa sua, dentro l'ambasciata, dove la moglie, il figlio e la suocera ci stanno aspettando da qualche ora, per il pranzo.
Mario ha organizzato tutto quanto dall'Italia, non c'è stato niente da fare. Non è servito ripetergli più e più volte che volevamo starcene un paio di giorni in giro per Kampala tranquillamente, da sole, dormendo in una guesthouse. No, lui ha voluto così e così è stato. E ora Luca si è trasformato in una specie di angelo custode. Ci ha organizzato tutto: cene, spostamenti, pernottamento.... Dormiremo addirittura dentro la residenza dell'Ambasciatore, nella dependance di Enrico, l'altro carabiniere.
Siamo nere di rabbia, ma Luca e la moglie sono così gentili che è impossibile non apprezzare. Lei ha preparato due italianissimi piatti di spaghetti al pomodoro, più coniglio in umido, pomodori fritti, carciofini.... mamma mia.
Mangiamo come maiali (stavolta con la forchetta) e ci lasciamo coccolare dalla sensazione, in fondo piacevole, di non dover pensare più a niente, di non avere preoccupazioni.
La casa di Luca è una bolla di Italia in mezzo alla città. Si è trasferito qui con la moglie 6 anni fa, e si è portato il suo Paese dentro un container: mobili, quadri, soprammobili, ma anche mattonelle per il bagno, sanitari, biancheria, cibo..... tutto. Un trasloco globale. Per fortuna, nel tempo, sono riusciti a farsi spazio anche alcuni timidi oggetti africani: lunghissime lance Masai, panchetti Karamoja, longilinei guerrieri scolpiti rwandesi, incredibili tavolette sudafricane dipinte sullo sterco di vacca secco. C'è anche un televisore che trasmette il TG1 via satellite, da cui scopriamo che, nel frattempo, è caduto il governo. E devo ammettere che ci sembra un evento del tutto insignificante.
Ma mi accorgo più pienamente di quanto siamo “stonate” solo nel momento in cui entro in bagno: me ne accorgo dalla mia estaticamente stupita reazione di fronte a mattonelle pulite, uno sciacquone potente, sapone per le mani e asciugamani morbidi...

The Gaagaa Coach

Avevano provato in tutti i modi a dissuaderci, soprattutto Mario: perché massacrarsi con un viaggio di 7 ore in pullman, quando puoi tornare comodamente a Kampala in aereo?

E aveva condito la frase con una piccola dose di terrorismo psicologico, dipingendo per noi scene di viaggi sul Nile Coach (l'altra compagnia di trasporto): passeggeri schiacciati tra grasse signore sudate e fagotti giganti, su infernali sedili di legno, mentre il caldo soffocante manda in delirio una flotta di galline che perdono tutte le penne (e magari, chissà, potrebbe esserci anche qualche capra impazzita con la diarrea...).

E poi devi prenotare i posti almeno una settimana prima, pagare in anticipo, tornare a controllare due giorni prima, e poi ancora un giorno prima della partenza che i tuoi posti non siano stati venduti nel frattempo a qualcun altro e, nel qual caso, discutere....

Solo dopo, aveva terminato con un'impercettibile nota positiva: “il Gaagaa però è molto meglio del Nile”.

Quindi, preoccupate ma testarde (MAI saremmo tornate indietro in aereo! Per principio), eravamo pronte a tutto.

In realtà poi, a bordo del Gaagaa, abbiamo ovviamente fatto uno dei nostri viaggi più comodi e piacevoli in assoluto.

Ci siamo accaparrate i posti migliori, accanto all'autista, con la dovuta settimana di anticipo. Tra il parabrezza e noi c'era talmente tanto spazio che ci siamo accampate indegnamente, disseminando zaini, sacchi, scarpe, calzini, libri, cesti, bottiglie, cenci, avanzi unti di cibo... una vera vergogna.

A dispetto delle nostre gambe completamente stese e libere di muoversi, non è stato possibile dormire, ma solo perché guardare fuori dal finestrino (anzi, guardare DAVANTI a noi, attraverso il parabrezza gigante) era troppo bello.

Un'interminabile strada che corre in mezzo all'Africa, attraversando steppe, boscaglia, colline morbide, picchi di roccia, minuscoli villaggi di fango, distese di sacchi di carbone, mandrie di mucche emaciate dalle lunghe corna, fiumi e ruscelli (e il Nilo! Le rapide delle Marchinson!), paludi di papiro e gazzelle...

Ogni tanto, qualche sosta nella polvere. E l'assalto dei venditori, che compaiono in mezzo al nulla. Gli uomini arrostiscono spiedini di capra su bracieri improvvisati e, quando ne hanno messi insieme un bel mazzo, tentano di infilarteli ovunque, dal finestrino.

Nel caso ti servisse, qualcuno è lì pronto per venderti anche un bel pollo vivo, appeso a testa in giù per le zampe.

Le donne hanno enormi ciotole in testa, e ognuna declama la sua merce: uova sode, quarti di pesce fritto, samosa di ceci, pasta fritta alla keniota, ananas, chapati già arrotolati.

Il tutto è condito con abbondante polvere, ma è comunque buono.

Con la loro ciotola sulla testa arrivano precisamente all'altezza del finestrino, così non devi neanche prenderti il disturbo di scendere... Non puoi dire di no.

Qualche cambio di passeggeri e poi si riparte. Non incontriamo macchine, solo gente a piedi (perlopiù donne con i loro schiaccianti fagotti e le loro taniche d'acqua) e qualche raro camion pieno di merci, o di persone, o di entrambe le cose insieme.

E c'è una cosa su cui Mario aveva però tristemente ragione: le condizioni del manto stradale.

Mai visto niente del genere.

I simpatici cinesi, dopo aver costruito e asfaltato le strade per raggiungere più comodamente tutti i luoghi pieni di risorse da sfruttare, si sono poi disinteressati della manutenzione e hanno finito per abbandonare i tratti meno redditizi.

C'è un lungo tratto di strada in cui l'asfalto è lasciato a se stesso da chissà quanti decenni.

In mezzo alla carreggiata ci sono talmente tante buche, e talmente profonde, che i camion preferiscono uscire di strada e guadagnarsi il passaggio lungo i bordi, sulla terra nuda ancora libera dalla vegetazione.

Per l'autista non è niente più che “normale amministrazione” correre come un pazzo in mezzo alle buche, schivandole all'ultimo momento per buttarsi fuori strada, mentre nell'altra direzione arrivano matatu contromano a tutto fuoco, strombazzando allegramente... Noi invece, a dispetto delle risatine a denti stretti, siamo un po' scosse. In un paio di occasioni ho avuto la netta sensazione che ci saremmo ribaltate e saremmo finite schiacciate in una buca: voilà, morte e sepolte in una mossa sola.

Ma dopo diversi chilometri di panico, ecco sbocciare un altro fiore dello spirito africano: sui bordi della strada ci sono gruppetti di ragazzi armati di pale che, in modo del tutto spontaneo, si dedicano alla strada. Vanno in cerca di sassi, li accatastano, riempono le buche, poi ci versano sopra polvere e sabbia e battono il tutto con la pala.

In cambio ricevono l'elemosina degli autisti.


Cena d'addio

Alla fine ci siamo, dobbiamo lasciare Oluko.

Fra qualche giorno, dopo una piccola sosta nella capitale, saremo in Italia; è difficile da digerire. Non c'è una singola cosa che mi faccia sentire la spinta di tornare a casa. Vorrei restare, almeno un paio di mesi ancora.

Mi mancherà questa terra, questi campi, questa vita fatta di niente e di tutto, mi mancheranno i ritmi così lenti e scanditi, a cui ormai siamo abituate. Mi mancheranno gli occhi lucenti di queste persone, le emozioni, e tutto ciò che qui ho imparato a conoscere di me stessa.

Father George ha deciso di fare una festa per salutarci. E “festa” significa cibo e bevande in bottiglia (il lusso più grande...) per tutti.

Passiamo il pomeriggio in giro per Arua a fare la spesa, caricando il pick-up di verdure, farina, frutta, bottiglie di birra e coca-cola.

Rosie cucina cantando, come sempre, mentre il cielo si tinge di rosso.

Oltre ai preti di Oluko e ai seminaristi c'è anche la suora comboniana che abbiamo conosciuto a Riki. E' preoccupata, domani partirà per i Monti Nuba, in Sudan, verso una nuova vita di privazioni ancora più grandi, per aiutare la sua gente. Ci racconta di ciò che l'aspetta, dei drammi profondi del popolo del Darfur, del deserto, delle mancanze e del clima implacabile. Pare che quello sia il luogo più duro di tutta l'Africa... Non la invidio, ma una parte di me vorrebbe seguirla.

Abbiamo richiesto espressamente di poter cenare fuori, nell'aia davanti alla cucina. E stasera, per la prima volta, mangeremo tutti insieme: i preti, Rosie, Sebastian, Valentine e tutti gli altri.

Prima di mangiare, la preghiera (ormai ci siamo abituate addirittura a questo...). Ma è una preghiera speciale: ci mettiamo in cerchio, con la sola luce di uno spicchio di luna e di una candela, e ci prendiamo tutti per mano. Poi, uno ad uno, gli altri prendono la parola e ci regalano il loro pensiero, il loro personale ringraziamento... Inutile dire che siamo commosse, e che il buio non riesce a nascondere del tutto le lacrime.

Preghiera del tramonto

Arriviamo all'orfanotrofio di Idiofe al tramonto, mentre i bambini stanno cenando. Sono tanti, almeno 70, dai 7 ai 18 anni. Il refettorio è uno stanzone enorme, spoglio, con qualche tavolo e qualche panca. La fioca luce dell'unica lampadina ad energia solare va e viene, lasciandoli ogni volta nel buio totale. Così escono fuori col loro piatto e mangiano per terra, sotto uno spicchio di luna che non riesce ad illuminare i loro volti, le mani impastate di erba secca e fagioli.

Dopo cena pregano fuori, nel buio. Si siedono per terra, tutti insieme, rivolti verso il sole già tramontato e cantano...

E' difficile raccontare l'emozione di ascoltarli. Non so se sia l'atmosfera, il buio, il loro trasporto, l'intensità di tutte quelle voci... ma c'è qualcosa che ti attraversa e ti fa vibrare. Sono potentissimi.

Winnie lega tutte le voci in una sola, come il filo di una collana. Altri suonano i tamburi. Il buio è totale, nero, assoluto. Siamo immerse in un coro di preghiere senza vedere niente attorno, e siamo semplicemente ammutolite dall'energia che scorre nell'aria.

Qualcuno si preoccupa per i nostri inutili occhi di occidentali e dopo un po' porta una lampada a petrolio. Ora li vediamo in volto. Sono concentrati, gli occhi chiusi, traboccanti intensità. Poi smettono di cantare e cominciano a pregare, tutti insieme ad alta voce. Ciascuno le sue parole, la sua preghiera, con toni di voce sempre più alti, ognuno a sovrastare quella dell'altro.

Una totale assenza di sintonia, ma un suono così potente da sembrare una specie di incantesimo.

In questo momento, nella mia condizione di atea bianca e privilegiata, mi sento triste e mutilata, deprivata di emozioni che non potrò mai provare.

Translations

Io e Raffaella stiamo discutendo con Father George della probabile realizzazione della maternità di Oluko. Stiamo parlando di costruzioni, materiali, edifici....... e chissà come, ad un certo punto spuntano fuori le loro capanne. Il maledetto inglese a volte (o spesso) ti sfugge di mano... e quel dannato “capanne” non voleva proprio saperne di venirci in mente. Ok, glielo chiediamo.

Come chiamate qui le vostre... costruzioni di fango... quelle con il tetto di paglia....?”

Padre George ci guarda per qualche secondo, sembra perplesso, non capisce la domanda.

Poi dice: “Beh, noi quelle le chiamiamo CASE...”

Ovvio. Stupide occidentali.

The Charismatics

Dopo 3 settimane di impazienza alla fine ce l'abbiamo fatta: abbiamo un invito per la messa dei Carismatici.

Tutti ci hanno parlato di loro, chi in modo entusiastico, chi in tono perplesso, chi quasi in punta di piedi, come volendo far finta di ignorare la questione...

In realtà i Carismatici sono molto diffusi in Uganda, solo che non si sa mai quando arrivano a celebrare le loro messe nelle chiese... e noi li abbiamo sempre persi per poco, sia ad Arua che a Moyo.

Raffaella mi mette un po' in guardia. Lei che ha visto i video girati da Stefano qualche mese prima prevede che non sarà esattamente un “bello” spettacolo... Ma io ne sono attratta tremendamente, voglio vedere.

Ovviamente, la solita sfiga: siamo sotto Quaresima (e chi se lo ricordava? Quaresima? Che è??). Il che vuol dire che la messa a cui assisteremo sarà più “soft”: niente balli sfrenati, niente urla e canti a squarciagola. Peccato. Dentro di me penso che forse sarà deludente, ma ormai siamo invitate...
In realtà mi sento anche leggermente in colpa, perché loro ci hanno accolto a braccia aperte alla loro cerimonia sacra, mentre noi assistiamo con l'occhio asettico delle occidentali curiose.

Tanto per cominciare, il tipo che celebra la messa ci delizia con la solita cosa imbarazzante del doverci presentare a tutta la chiesa... ma ok, ormai siamo abituate.

Poi inziano le preghiere, cantate piano, quasi sottovoce. Anche i tamburi suonano in modo più soffice. Ma non sembra che ci sia niente di diverso da una normale messa africana.

Dopo un po' però qualcosa comincia a cambiare... Le persone stanno pregando, ad occhi chiusi, a voce alta, e ognuna per conto proprio. Non è un coro e non è un canto, perché ognuno di loro dice parole diverse. E' una specie di lamento comune, di incitazione, di sfogo, che cresce di intensità e di ritmo, sempre di più, in una specie di esaltazione collettiva... E' un suono evocativo, di una potenza incredibile. Ho la pelle d'oca. Riesco solo vagamente ad immaginare cosa possa essere quando la gente è libera di urlare e di ballare, e il suono dei tamburi ti rimbalza nello stomaco sempre più forte...

Dopo un po' sento un borbottio, guardo dietro di me: è una bambina sui 4 anni. Ha gli occhi chiusi, sta sussurrando una frase a ripetizione, sempre la stessa, in modo lamentoso. Quando si sta per accasciare per terra, la mamma la spinge verso il centro della chiesa e la lascia cadere dolcemente. Lei resta lì distesa in modo scomposto. Se non fosse per i lamenti sembrerebbe svenuta. Continua così per un bel po': lamenti e respiro affannoso. Per terra si è formata una piccolissima pozza di lacrime sotto al suo viso.

Io e Raffa siamo le uniche a mostrare un qualche tipo di stupore per quello che sta succedendo. Tutti gli altri (mamma compresa) continuano indifferentemente a pregare e a cantare. Nessuno guarda la bambina. Dopo una decina di minuti le si avvicina lentamente una ragazza che, dolcemente, le sussurra qualcosa, la tocca leggermente, le fa il segno della croce sulla testa, la scuote in modo impercettibile..... E, di botto, la bambina si risveglia. Apre gli occhi, smette di piangere e si rimette seduta con la mamma. Come se non fosse successo nulla.

Dopo un po' ecco un'altra bambina. E' piegata su se stessa sulla panca della chiesa, ha gli occhi chiusi, si lamenta e sbava. Anche lei si accascia, sembra in un altro mondo.

Poi ecco la signora dietro di me, che si dondola avanti e indietro sempre più velocemente, stringendosi forte le braccia al petto.

E' strano, sembrano matti. O santi. Chissà...

Ogni volta la stessa cosa: dopo un po' qualcuno arriva, sussurra loro qualcosa, li tocca leggermente, traccia loro segni addosso con le mani e, come un tramite tra la realtà e l'ultraterreno, li riporta dolcemente nella nostra dimensione.

Benzinaio

Lungo la strada per Oluko c'è un benzinaio.

Un ragazzo siede per terra nell'erba secca, infinitamente paziente (visto che qui praticamente nessuno ha bisogno della benzina). C'è un piccolo cartello di cartone, scritto a mano: Petrol.

Davanti a lui, due bottiglie di plastica piene di benzina e un imbuto. Nient'altro.

E ovviamente il prezzo è tutto da contrattare...

Sanità

Stamani Sebastian ci aspetta davanti alla siepe, seduto per terra, paziente, ma con lo sguardo smosso da lampi di angoscia trattenuta a stento. Si sorregge un braccio con l'altra mano.

All'inizio non vedo bene, mi avvicino e chiedo cosa c'è che non va. In effetti non c'era molto bisogno di chiederlo.... (la stupida): Seba ha una mano talmente gonfia che sembrano due. Il dito indice ha le dimensioni di mezza salsiccia e sotto la pelle tesa si vede il colore giallastro del pus. L'infezione è parecchio avanzata e il gonfiore arriva fino al gomito. Non riesce neanche a muovere la mano dal dolore.

Penso: Ok, lo portiamo all'ospedale, il più “di corsa” possibile (l'African Time qui vale per tutti, anche per noi). Ma pare che Seba preferisca andare ad un Health Center, perché ci sono meno code, perché conosce il medico e per altri motivi che non capisco (quella mano bene in vista non aiuta a concentrarmi gran che sul suo traballante inglese. Né sul mio..).

L'health center non è altro che una specie di farmacia con una piccola stanzetta annessa, dove un medico si arrangia a curarti con quello che può.

Mentre lui aspetta il suo turno insieme a Raffa, io mi butto nell'avventura quotidiana dell'acquisto di materiali... sperando di non metterci il solito tempo indefinibile.

Chissà cosa mi aspettavo da quell'health center... Non saprei dirlo. Ma quando torno trovo Raffa sconvolta sulla panca. Poi capisco: stanno “operando” la mano di Seba con una lametta da barba, senza la minima traccia di un qualunque tipo di aiuto contro il dolore. Niente ombra di ghiaccio. Né tantomeno della bottiglia di cognac da film western che mi è inspiegabilmente saltata in mente.

Il grande, forte Seba piange e urla come un bambino ed è intollerabile sentirlo, farebbe pietà a un sasso.

Il tutto avviene nella più totale normalità. La porta fra le due stanze è aperta, qualcuno compra delle pillole, qualcun altro è seduto sulla panca ad aspettare il proprio turno. C'è addirittura una bambina piccola con la mamma. Seba è lì bene in vista al di là della porta, urlante e con la sua mano aperta, e nessuno si smuove di un pelo, nessuno si scompone. Neanche la bambina...

Io solitamente sono pessima in queste cose, non riesco a guardare le ferite, a tollerare il sangue degli altri, il dolore. Ma ho una strana, incosciente reazione: mi butto di là a cercare di confortarlo, dirgli qualcosa, stringergli una spalla, che ne so..... Lui probabilmente neanche se ne accorge.

Non l'hanno neanche fatto sdraiare, è semplicemente seduto sulla sua panca, coraggioso e piangente.

Ovviamente evito accuratamente di posare lo sguardo sulla mano. Mi concentro, risoluta, sul muro di fronte a me, ma capisco dai movimenti e dalle urla che il medico sta strizzando tutto il braccio per far uscire il pus. Quando cerco di stringere la sua mano sana mi ritrovo la mia imbrattata di sangue.... Eccoci, ci mancava pure questa. Mi pulisco strusciandola sul muro e non posso fare altro che sperare che Seba non abbia malattie troppo gravi...

Alla fine del trattamento e della medicazione qualcuno ci assegna delle bustine di plastica con qualche preziosa pillola di penicillina e antibiotici. Ci vorranno ancora altri 5 giorni di medicazioni. In tutto fanno la bellezza di 28 mila scellini, cioè meno di 12 euro. 12 euro che valgono una mano, ma che Seba, come moltissimi altri, non avrebbe potuto permettersi di spendere.


Lo zen e l'arte di riparare la macchina (ovvero: potenza del fil di ferro)

Devo andare a recuperare la macchina rimasta ferma ieri a Riki. Il solo pensiero mi fa venire i brividi. Prima di tutto perché non sono del tutto convinta che la ritroverò ancora lì...
Anzi, pensandoci bene, la giornata di ieri mi sembra così surreale che non mi stupirebbe tornare sulla collina e non trovare nessuna traccia non solo della macchina, ma neanche della casa di suor Anastasia, né del villaggio.
Ma soprattutto quello che mi atterrisce è il meccanico.
Fra le disavventure più o meno quotidiane, quella di far rimettere a posto la jeep (sempre lei... d'altronde avrà 30 anni...) appena arrivati a Oluko, è stata la peggiore. Nonostante ci fossero ancora Mario e Gianluca ci erano voluti almeno tre giorni di incontri, attese, contrattazioni, discussioni.
Già, perché prima di tutto devi trovare (fisicamente) il meccanico, che non è una cosa banale. Arrivi, aspetti, poi chiedi, e aspetti ancora. Non si sa mai esattamente dove sia, ma sicuramente non c'è. Anche perché ogni volta che gli serve una vite, va al mercato a comprarla (troppo dispendioso tenere una scorta di viti a portata di mano....E se poi non le usa??). Dopo un tempo variabile arriva a passi lenti, ma sicuramente ha molto da fare e non può darti retta. Poi bisogna convincerlo a fare il lavoro, contrattare il prezzo per almeno una mezz'ora e mettere in conto di dover tornare più e più volte a ricordargli qual era la riparazione che doveva fare e il prezzo che era stato concordato (anche se poi ovviamente ti dirà che il tal pezzo di ricambio non era compreso nel prezzo e che ci vogliono dei soldi extra per andarlo a prendere al mercato).
Alla fine, ovviamente avrà risolto il tuo problema solo al 60%.

Questa volta, visto che naturalmente i carri attrezzi non esistono, si tratta di andare in città a recuperare il meccanico (vedi considerazioni di cui sopra), dopodiché:
1.convincerlo a seguirmi fino a Riki in tempi umani, lasciando perdere tutto il resto;
2.contrattare selvaggiamente il prezzo sperando che non si abbuffi della mia disperazione;
3.pregare che abbia con sé tutto quello che gli serve e che non manchi sul più bello chissà quale stupido dado, dovendo così sciropparmi altre due ore di buche fino alla città-e-ritorno;
4.riuscire a ritrovare la casa di Anastasia in mezzo ai campi;
5.sperare che la macchina ci sia ancora;
6.e soprattutto, invocare tutti i santi perché il problema sia risolvibile e non mi debba vedere costretta ad abbandonarla definitivamente.

Incredibilmente, dopo solo un'ora di attesa riesco a recuperare il figlio del meccanico (più giovane, più sveglio e anche un tantino più disponibile, pare). Sembra perplesso, non è troppo convinto... ma alla fine decide di accompagnarmi con una jeep scartocciata presa in prestito per l'occasione.
La casa di Anastasia sembra un altro posto oggi. Silenzio; nessuna traccia di musica, canti, balli, tamburi e bambini urlanti. E noto soltanto adesso che ieri sera abbiamo ballato praticamente sugli antenati di famiglia, amorevolmente sepolti in mezzo all'aia...
Ma la macchina è proprio lì dove dovrebbe essere. La metà è fatta!
Il tipo non perde tempo, si stende sotto e comincia a “visitarla”. Tremo un po'. Mi infilo sotto anch'io.
Lui parla il peggiore inglese che abbia mai sentito finora, ma alla fine, un po' a gesti, ci capiamo: c'è un pezzo rotto, uno stupido piccolo cilindro pieno di asticciole di metallo, che trasmette il movimento all'asse. Come volevasi dimostrare, è ovvio che non ha con sé niente del genere (Certo, che mi aspettavo??? Gli avevo solo fatto una descrizione iper-accurata...)
Panico. E ora che si fa?
Lui mi guarda con occhio vacuo e il solito sorrisetto di chi non capisce affatto perché ti agiti tanto.
Mentre resta lì a pensare al da farsi qualcuno mi fa entrare in casa e mi offre dell'acqua. Con calma, scopro che quella è una casa-famiglia e che una delle parenti di Anastasia accoglie molti bambini orfani e riesce a mantenerli 6 mesi l'anno vendendo la frutta e la verdura che coltiva grazie alla sorgente che ci hanno fatto vedere ieri. Nella stagione secca però non è possibile irrigare le piante a sufficienza e lei mi chiede se possiamo fare qualcosa. Sarebbe sufficiente un semplice impianto di irrigazione ad energia solare per poter mantenere i bambini per tutto l'anno. Prendo nota e aggiungo mentalmente al resto, anche se con poca speranza.
Poi la situazione si sblocca: pare che qualcuno abbia trovato del fil di ferro!
Lì per lì mi sfugge il perché di tanto entusiasmo. Poi realizzo qual'è il “piano”: fissare l'asse di trasmissione con il fil di ferro e tornare fino in città in questo modo... Ottimo direi.
Salto da una buca all'altra come in punta di piedi, la strada sembra lunga il doppio, ma riesco ad arrivare fino ad Arua.
Da qui in poi si tratta solo di tartassare il giovane meccanico perché faccia il suo miracolo. Già che ci siamo, azzardo l'ipotesi di aggiustare anche i finestrini elettrici, che da una settimana sono bloccati a mezz'asta, lasciando entrare nubi di polvere rossa che ci fagocitano i polmoni.
Naturalmente... il pezzo di ricambio per gli alzavetri non solo non c'è, ma si può (forse) trovare solo nella capitale, a 8 ore di macchina da qui.
Non resta che recuperare il fil di ferro da sotto e riciclarlo abilmente come fermaglio per il vetro (che ovviamente da oggi sarà impossibile aprire).

La grande festa

Father George solitamente è una meteora. Sparisce la mattina e ritorna la sera, sempre preso dai suoi giri e dai suoi impegni: un matrimonio di qua, un funerale di là, visite ai villaggi, parole ai malati, cerimonie...
Non ci ha mai chiesto di seguirlo. Ieri però ci ha sorpreso con un invito. E fra l'altro un invito di quelli che, dal tono con cui vengono posti, non ammettono rifiuti.
Però è stato vago, quasi misterioso; non ci ha spiegato niente, ha solo parlato di una qualche “festa ad un villaggio per la nomina di una nuova suora”.
La sera, Raffa e io ci siamo infilate sotto la zanzariera con un misto di curiosità e preoccupazione, preventivando già interminabili ore di messa e chissà quali pallosissime cerimonie liturgiche.
La mattina ci alziamo molto presto. A giudicare dalle folle di suore che continuano ad arrivare si direbbe che sia un'occasione molto più “mondana” di quanto pensassimo. Pare che siano invitati proprio tutti-ma-tutti.
Il pick-up di George è stato caricato di persone come solo qui è possibile fare. Saranno almeno una ventina. Noi lo seguiamo con la nostra jeep, e un sedile posteriore ricoperto di suore strizzate, in abiti celesti. Ridono come matte...
La strada è - incredibile ma vero - ancora peggiore di quella che arriva a Oluko. George ovviamente fila via come un razzo, e io non posso fare a meno di sudare e stringere gli occhi ad ogni cratere di roccia superato, pensando ai quintali di suore che abbiamo stipato dietro.
Strada facendo, George si ferma in altri villaggi a far salire qualcun altro, giusto per riempire chissà quale impercettibile vuoto rimasto. Li incastra come un puzzle.
Riki è lontano: un posto sperduto in mezzo alla campagna arida. Cominciamo a capire che ci stiamo avvicinando solo dalla quantità di gente che sempre di più affolla le strade: un fiume festoso di grida, canti e colore, che scorre sempre più forte verso la collina.
Molte donne sono vestite di bianco e agitano fronde d'albero sopra la testa.
Sembra che stia spuntando gente da ogni cespuglio secco.
In cima alla collina c'è una chiesa, ma è vuota. Tutto il contenuto, panche, crocifisso e altare compresi, è stato riversato fuori, dentro una specie di grande recinto improvvisato per l'occasione mettendo insieme rami, fronde secche e pezzi di plastica.
C'è tantissima gente, e tutti hanno addosso il loro “vestito buono”. L'effetto è disorientante...
C'è un'eccitazione così forte che sembra di toccarla. Gli uomini siedono per terra e suonano i tamburi tutti insieme, fortissimo, in modo diverso che in chiesa. Molte donne ballano. E' una danza “selvaggia”, fatta di urla e di salti verso l'alto. Viene voglia di buttarsi nella mischia, ma ci sentiamo troppo estranee per farlo.
Poi arriva il vescovo. Ed eccoci alla tanto temuta messa. Qui di solito le messe sono molto belle... forse per la musica e i canti, o forse perché non si capisce una parola. Ma questa volta i discorsi si susseguono uno dietro l'altro per molto più tempo del solito... e io mi addormento sulla panca. Vengo bruscamente risvegliata dallo stupore quando George ci chiama in piedi in mezzo al recinto, per presentarci alla comunità di Riki... Applausi e imbarazzo.
Dopo la cerimonia George ci annuncia con un mezzo sorrisetto che andremo a pranzo a casa di suor Anastasia e poi torneremo qui per la FESTA. Ci infiliamo con le jeep attraverso i campi, seguendo un sentiero inesistente in mezzo a banani, manghi, capre e capanne. La casa di Anastasia è una specie di oasi più verde, alla base di una piccola collina. Ci sono diverse capanne, ma soprattuto c'è una sorgente, che consente alla famiglia di avere un orto molto grande.
La stanza è piena di suore... poi ci sono il vescovo con la sua segretaria e una enorme donna ministro, originaria della zona, inguainata in un abito di paillettes rosa (sembra incredibile, qui gli abiti “buoni” sono tutti uguali: stesso taglio, stesse paillettes, stesso gusto estremamente kitch... cambia solo il colore). E soprattutto c'è una quantità di cibo imbarazzante. Il nostro turno per riempirci il piatto stavolta è fortunatamente sceso in terza posizione, dopo vescovo e ministra. Raffa ha la sventura di incappare nel terribile stufato di capra, ovvero pezzi di ossa con una carne così dura e nodosa che i nostri denti poco allenati non sono in grado di dilaniare. Così scatta la “missione osso di capra”: io dovrò distogliere l'attenzione del vescovo, delle suore e della padrona di casa mentre Raffa si impossesserà del corpo del reato, nascondendolo in un fazzoletto per il naso, e se ne uscirà sommessamente nell'aia, in cerca del cane...
Subito dopo pranzo, con lo stufato di capra ancora in bilico all'imboccatura dello stomaco, ecco di nuovo una schiera di suore in abito azzurro pronte per colonizzarci la jeep e tornare alla festa.
Purtroppo i (molti) bambini della casa vogliono salire con noi e, con uno scambio di sguardi scaramantico, decidiamo di farli salire dal portellone del portabagagli.
Non voglio sapere quanti siamo dentro quella macchina, ma pare che ci stiamo tutti. Ok, metto in moto, ingrano la prima.... e la macchina non si muove. Niente da fare, non ne vuole sapere.
Qualcosa mi dice che abbiamo un enorme problema, ma provo ad essere rilassata. Scendo, mi accuccio sotto, guardo... e scopro che l'asse di trasmissione si è staccato e ciondola per terra!
Il vescovo e George sono già partiti e non abbiamo modo di avvertirli.
Vorrei morire.... E ora? Come facciamo ad andare al villaggio? Come possiamo lasciare la macchina incustodita in mezzo ai campi? Potremo ripararla? Come facciamo a portarla fino in città? E soprattutto: chi lo dirà a Gianluca???
Ovviamente, sembra che io e Raffa siamo le uniche ad agitarci (mamma mia, questi occidentali quanto sono psicotici...). Gli altri sono super-rilassati e sorridenti come sempre: “Che problema c'è? Lasciate la macchina qui, è al sicuro. Andiamo al villaggio a piedi, ci godiamo la festa, e poi domani, con molta calma, portate qui un meccanico dalla città...”. In effetti, non c'è molta scelta, l'unica cosa che possiamo fare è seguire il suggerimento e cercare di rilassarci. Mi oraku...
Arriviamo tardi, e purtroppo ci siamo perse le danze dei bambini in gonnellino di paglia. Ma il recinto è irriconoscibile, si è completamente trasformato. Non è più una “chiesa da campo”, ma una specie di Casa del Popolo primordiale. Le panche sono scomparse e il recinto è pieno di gente seduta per terra a mangiare. Nel mezzo ci sono due enormi tavoli pieni di cibo: oggi tutti quanti possono mangiare gratis e, a giudicare dagli occhi di molti di loro, questo è davvero un regalo grande. Dobbiamo mangiare ancora anche noi, e vorrei tanto avere uno stomaco di riserva,o un sacchetto in cui vomitare per poter ricominciare da capo.
Mi alzo e vado a farmi un giro fuori dal recinto, lungo un sentiero in mezzo ai campi, giusto per far scendere un po' i fagioli. C'è un cielo pazzesco, uno di quei cieli che si vedono solo in Africa, di aria limpida e orizzonti lontani, di raggi di sole e nuvole cupe. Sta diventando tutto nero e si sta alzando un vento polveroso; odore di bufera.
All'abbuffata collettiva segue la cerimonia delle offerte, con cui la popolazione esprime il proprio augurio ad Anastasia (pare che da queste parti diventare suora sia davvero una roba seria...) offrendo ciascuno un piccolo regalo. Grazie ad un generatore un paio di casse diffondono musica africana a volume supersonico e la gente scorre davanti a noi, in file ora ordinate, ora scomposte, chi offrendo monete, chi frutta, chi sacchi di farina, chi caprette vive e addobbate con cenci colorati. Fanno la fila ballando, e ballano proprio tutti: uomini, vecchi, bambini, donne con i loro piccoli neonati infagottati dietro la schiena. Continuano a scorrerci davanti per ore, saltando, ballando e gridando. Non smettono neanche quando comincia a piovere, anzi gridano ancora più forte, per scavalcare il rumore della pioggia.
Verso l'imbrunire, quando le offerte sono finite, alla musica si aggiungono i tamburi. E il ritmo cresce sempre di più, così come l'eccitazione collettiva. Quello che prima era lo spazio di fronte all'altare si è trasformato in una specie di polverosa pista su cui tutti stanno saltando come pazzi. Addirittura una suora, seduta accanto a noi, si alza all'improvviso e, con un piccolo sorriso leggermente colpevole, si mette a correre verso la polvere e comincia a saltare insieme agli altri.
Guardarli è come una droga. Alla fine non resisto più, mi alzo anch'io e mi butto in mezzo a loro, salto con loro. E dalle loro grida nasce un boato! Mi guardano e mi sorridono tutti, mi battono le mani...Sono contenti, forse la vivono come una forma di condivisione più profonda.
Resterei a ballare con loro tutta la notte, ma George sembra preoccupato, dice che quando gli animi si scaldano troppo e l'alcool entra in circolo è meglio essere prudenti. Non gli credo molto, ma siamo comunque costrette a seguirlo di nuovo a casa di Anastasia. Già, perché ora ci aspetta la CENA!!
Stessa casa, stessa scena, stessi ospiti, stessa abbuffata. Solo che ora nell'aia ormai completamente buia è stato acceso un generatore e c'è musica! Ancora musica! E tutti i parenti e gli amici di Anastasia stanno ballando! Inutile dire che appena riusciamo a liberarci del piatto ci catapultiamo fuori a ballare con gli altri, fregandocene altamente di ciò che suggerirebbe l'etichetta e del fatto che il vescovo possa approvare o meno la nostra mossa.
Balliamo e balliamo e balliamo, praticamente al buio. C'è anche la segretaria del vescovo! Sembrano tutti così felici di vederci ballare con loro... non la smettono più di farci sorrisi e i bambini ci saltano intorno, prendendoci per mano.
E' dura andarsene. Abbandoniamo la macchina al suo destino, nel buio di quell'aia, ma non voglio pensarci ora, ci sarà tempo domani.
Raramente mi sono sentita così “piena” e forte in vita mia.

In città






In un angolino della mia mente risuonano ancora quelle poche frasi, quel tono ansioso così goffamente malcelato... Mario e Gianluca si erano raccomandati: “Cerca di non usare tanto la jeep quando saremo partiti. E soprattutto evita di usarla in città”.

In effetti, concordavo dentro di me, il caos di Arua è inaffrontabile. Carreggiate invase di persone, capre, carretti, galline, camion carichi di persone e banane, bici che ti schizzano davanti come cavallette, matatu imbizzarriti e strombazzanti... e la maledetta guida a sinistra, che non aiuta.

Il tutto condito da una naturale assenza di semafori e segnaletica stradale decente... nonché dalla mancanza di qualunque tipo di autodisciplina (cioè ognuno fa praticamente come-gli-pare).

Per l'appunto. Mi torna in mente proprio ora mentre, davanti al negozio dell'Indiano, vedo due ragazzi caricare sul soffitto della nostra Cherokee due tubi idraulici di almeno 7 metri di lunghezza l'uno. E' pazzesco quanto sono lunghi. Sporgono davanti e dietro, tanto, troppo. Non so come farò a non travolgere almeno una dozzina di biciclette tornando verso casa...

Dobbiamo comprare i materiali per costruire il bagno della Guestouse e non potevamo chiedere a father George di accompagnarci in città col suo pick-up perché le sue eroiche gomme, dopo chissà quante decine di anni di super-sollecitazioni, hanno deciso di scoppiare proprio ieri. Quindi nulla, tocca guidare. E schivare.

Come se non bastasse, ecco la bella novità: per caricare gli scatoloni di mattonelle dobbiamo andare fino “al magazzino” con la macchina.

Come temevo, ovviamente il “magazzino” è simpaticamente posizionato in pieno centro, nel bel mezzo del mercato. Il che significa quantomeno un pessimo quarto d'ora.

E' difficile tracciare un'immagine del centro cittadino... è un “troppo pieno” che riempie gli occhi e impalla lo sguardo. Ci sono talmente tanti input in ogni più piccolo spazio che il cervello non riesce a scindere le cose l'una dall'altra, e l'effetto è una vertigine caotica.

Strada sterrata, lavori in corso, bancarelle di legno improvvisate, merce varia accatastata in mezzo di strada, sacchetti di plastica rotolanti, cani vaganti, uomini indaffarati e donne stracariche.

E' buffo, mi sento come invisibile. Tutti, indistintamente, se ne sbattono del fatto che io abbia bisogno di passare proprio lì-ora. Continuo a schivare e rimpiango stupita il buon vecchio traffico di Firenze...

Lo zen e l'arte di acquistare materiali

A colazione, fra tè e fagioli, ecco lo scambio di frasi che ormai è diventato quotidiano:

Cosa c'è da fare oggi?”

Dobbiamo andare dall'Indiano....”

L'Indiano è un miracoloso negozio nel centro di Arua, dove riesci a trovare tutto, ma proprio tutto, quello che ti serve. E' incredibile, solo un paio di stanze, neanche troppo grandi peraltro, riescono a contenere magicamente tutto il macrocosmo dell'edilizia e della ferramenta. Dall'Indiano trovi dal cemento alla vernice, ai sanitari, ai tetti di lamiera, alle viti, alle serrature. Basta solo che tu ti armi di calma, costanza e un'infinita pazienza. E' diventato una specie di esercizio per la mente. Vai, chiedi, ti siedi. E aspetti.

Non ha importanza quello che devi comprare, quante persone ci sono prima di te, l'orario di arrivo.... comunque sia ASPETTI. In media, non meno di tre quarti d'ora.

La prima volta che siamo entrate, quasi un mese fa, insieme a Mario e Gianluca, ci abbiamo schiacciato 2 ore. La situazione era complessa: dovevamo farci conoscere, spiegare quello che stavamo facendo, convincerli, contrattare un buon prezzo, cercare di capire se e come ci stessero fregando...

Tipi difficili, questi indiani. Sempre seri, mai un sorriso, sguardo glaciale e quel senso infallibile per gli affari tradito solo da piccoli guizzi degli occhi acuti. Ma pian piano si sono rilassati, si sono un po' sciolti, hanno capito che i materiali sarebbero serviti a finire la scuola e si sono sbottonati un po'; ci hanno concesso il miglior prezzo della città (anche se penso che questo abbia più a che fare con il loro senso degli affari che con la loro anima buona...). Sono addirittura arrivati a tollerare che, dopo, fossimo noi (due donne!) ad occuparci delle forniture e, cosa ancora più grave, a guidare addirittura la macchina!

Le solite dinamiche insondabili fanno sì che ogni santo giorno ci sia improvvisamente qualcosa di nuovo da comprare e ormai siamo diventate clienti affezionate: pensavo che la situazione “tempi” sarebbe migliorata un po'. Ma niente.

E' un giallo: tu chiedi e loro spariscono. Inservienti affaccendati che scompaiono dietro tende e porte, per ricomparire un quarto d'ora più tardi con in mano solo UNA delle cose che hai chiesto, e scomparire di nuovo, più e più volte, in cerca di chissà-cosa-chissà-dove, in un flusso senza fine. Intanto, il capo (l'indiano) va al bazar in fondo al vicolo a comprarti un paio di bottiglie di coca-cola tiepida...

Alla fine abbiamo imparato. Lasciamo la jeep nelle mani fidate degli uomini in tuta blu e ce ne andiamo in giro, a comprare taniche di nafta per diluire la vernice o a strafogarci di chapati all'uovo e cipolla, cotti sul momento su una piastra crostosa, sotto un polveroso ombrello lungo la strada.

Rosie

Rosie è quella che dalle nostre parti potrebbe chiamarsi “la perpetua”. Vive in parrocchia con i preti, cucina, lava, pulisce quel poco che c'è da pulire, si occupa del bestiame, del fuoco...

Lei ha una sola, inconfondibile, totalizzante caratteristica: RIDE. Rosie ride sempre.

E' senza ombra di dubbio la persona più ridente che abbia mai incontrato. Ride quando ti dà il buongiorno la mattina, ride prima di andare a letto, ride quando ti dice che il pranzo è pronto, ride quando ti guarda da lontano, quando ti dà il bentornato dopo una giornata di sole e polvere. A volte sembra quasi una forma di pazzia.... ma no, alla fine ho deciso che non lo è. Semplicemente, le piace ridere. E canticchiare sottovoce, leggermente stonata, mentre gira la polenta sul fuoco o mentre pulisce le pentole nere di fuliggine.

Oluko è la risata di Rosie... Uno dei suoni che più mi mancheranno di questo posto.

Matatu

Ultime ore di Moyo.
Stamani ci siamo svegliate presto, siamo andate dai bambini, che già ci aspettavano. Li abbiamo aiutati a vestirsi per andare a scuola, come le altre mattine. Calzini, scarpe, divisa rosa.....
Li abbiamo salutati mentre si allontanavano dal cortile, in fila indiana. Nessuna di noi due ha voluto provare a spiegare che stavamo partendo. Inutile. Abbiamo fatto finta di nulla: un ciao con la mano, sorrisi, qualche abbraccio, e via. Dentro era uno strappo, un senso di abbandono definitivo.
Sister Maureen ci ha accompagnate al matatu, il mezzo pubblico più comune in Africa.
E' un piccolo pulmino-taxi che viene riempito fino a quando persone e bagagli non strabuzzano di fuori ma che, se hai la pazienza di aspettare, ti porta praticamente in qualunque luogo tu desideri andare.
Ovviamente non esiste un orario di partenza, visto che il matatu parte soltanto quando il “buttadentro” (socio dell'autista) riesce a garantire che tutti i posti disponibili, e anche qualcuno in più, siano occupati.
Maureen resta con noi per tutto il tempo dell'attesa: vuole essere sicura che riusciamo a partire. Stamani ha chiamato il fratello, perché si occupasse di contrattare il prezzo dei biglietti per noi e ci assicurasse due “buoni” posti (subito dietro all'autista, dove non sei costretto ad alzarti ad ogni fermata). Siamo riuscite addirittura ad incastrare i bagagli tra di noi, evitando così di legarli sul tetto ed abbandonarli al loro destino...
E' difficile fare finta di niente, siamo buie, Raffa piange; è dura lasciare quel posto, quei bambini, e quella donna tonda e dolce, fedele e guerriera, che ci ha fatto anche un po' da mamma e che ci resterà addosso a lungo.
Ci concentriamo sugli strani eventi che circondano il matatu. Non riusciamo a capire molto ma c'è del comico.
Gente che arriva, contratta, urla, poi ride, poi si strattona, carica galline e bagagli sul tetto, si sistema, poi scende di nuovo, contratta ancora, litiga, scarica tutto. E poi ritorna. Per contrattare ancora, discutere, sistemare bagagli...
Qualcuno litiga perché non ha spazio per la propria stampella. Qualcuno urla perché vuole ASSOLUTAMENTE tenere la sua borsa con sé e si rifiuta di legarla sul tetto: tafferugli, mani che tirano la borsa dal finestrino, battaglie verbali...
Noi siamo sedute dentro: unici due piccoli punti fissi in mezzo ad un volteggiare scomposto di persone. Tutti gli altri sono saliti e riscesi e poi risaliti almeno una quarantina di volta. Qualcuno di loro ha cambiato volto, i passeggeri sono stati sostituiti.
Alla fine, dopo più di due ore, partiamo. Siamo in 21 in un pulmino omologato per 14. I bambini in collo alle mamme, gli altri pigiati come sardine. Il buttadentro non ha neanche uno spigolo per sedersi, deve farsi tutto il viaggio incollato alla porta scorrevole laterale, con la schiena ripiegata contro il soffitto, o accucciato tra le gambe degli altri.
Per fortuna non credo abbia il tempo di accorgersene, visto che ad ogni fermata deve scendere e contrattare di nuovo da capo con i nuovi passeggeri.
Già, perché ognuno può scendere dove vuole, e da quel momento in poi scatta la caccia al cliente che rimpiazzi il posto vuoto. Altre discussioni, altre mezz'ore, soldi che passano di mano, toni accesi e urla, seguiti da risate e pacche sulle spalle... Mah!.
Persone scendono, persone salgono. Il matatu si svuota e si riempe di nuovo ogni volta.
Si riparte. Il buttadentro chiude la porta scorrevole ed ecco che il vetro esplode letteralmente in frantumi (per fortuna verso l'esterno). Lui non muove un pelo. Accosta di nuovo la porta, come se nulla fosse, e si riparte. “Succede...”
Il primo vero “paese” ha una specie di grande parcheggio per i matatu. Prevedono una sosta di mezz'ora. Io ho fame, o forse ho voglia di distendere le gambe, o forse sono solo stupidamente curiosa.... ma scendo, in cerca di un paio di chapati caldi all'uovo e dell'acqua fresca.
Non prendo il cellulare (“a che mi serve?”).
I banchetti sono un po' distanti, ma in un quarto d'ora al massimo torno trionfante verso il parcheggio....
... e il matatu non c'è più.
Non ho neanche il tempo di riflettere, che mi vedo arrivare incontro un tipo molleggiato che mi dice di seguirlo, che il matatu si è dovuto spostare e che mi stanno aspettando.
Lo seguo, all'inizio perplessa ma fiduciosa. Ma mentre il tempo passa e le svolte a destra e a sinistra si susseguono ecco che un tarlo comincia a rodermi: chi è questo? Dove stiamo andando? Come rintraccio Raffa? Come cavolo ho fatto a cacciarmi in questa situazione così stupida?
Comincio a far frullare il cervello con le ipotesi. Immagino che il matatu sia già ripartito, che Raffa non sia riuscita a far scaricare i bagagli e sia rimasta a bordo provando a chiamarmi, invano, sul cellulare... Faccio il conto di quanti soldi ho in tasca, di dove posso andare, se vale la pena tentare di cercare un altro matatu (magari tocca aspettare domani) o provare a cercare un modo per telefonare (chissà come). “Ma il numero chi se lo ricorda???”
.....
Fino a che ecco comparire il mio matatu dietro l'ultimo angolo....
Ecco, il tipo era sincero. E io sono stata malfidata. Mi sento ancora più stupida.

Invito a pranzo

Una delle sorelle di Sister Maureen ci aspetta per pranzo. E' strano questo alone di attenzione che ci si crea attorno, imbarazzante. E stavolta non c'è dietro nessun (sacrosanto) interesse personale, nessuna voglia di raccontare disagi, di chiedere e di ottenere qualcosa. Ora siamo semplicemente l'evento, il poter dire a tutti “ho avuto due Mundru a pranzo in casa mia!"...

Lasciamo la jeep e arriviamo dentro il villaggio a piedi, lungo un piccolo sentiero.

Ci sono una ventina di capanne e qualche capannette-latrina. La sorella di Maureen è chiaramente ciò che si definirebbe una “benestante”. Ha ben tre capanne, una per sé e per il marito, una per i figli maschi e una per le figlie femmine. E addirittura una cucina a parte, con dentro diversi bracieri di terra battuta.

Seguiamo Maureen in silenzio, accenniamo sorrisi e stringiamo mani, in quel modo africano così buffo... i palmi si incontrano per un attimo, poi vanno a stringersi attorno al solo pollice dell'altra mano, per poi incontrarsi ancora e serrare la stretta, magari enfatizzandola con la mano libera appoggiata sul proprio polso....

Per entrare nella capanna ci togliamo le scarpe e appoggiamo i piedi sulla terra dura, calda. I piedi nudi hanno immancabilmente lo stesso pacificante effetto di rallentare il tuo ritmo e rendere tutto più naturale. Entriamo. L'interno è completamente inaspettato. Di solito le capanne sono spoglie, non c'è niente dentro a parte qualche stuoia, un fornello, qualche stoviglia e qualche gallina. Ma non avevo ancora mai visto le capanne dei ricchi... è come guardare uno strano contenuto dentro un contenitore inadatto. Le pareti e il soffitto sono completamente rivestiti di teli bianchi e il pavimento è coperto di stuoie. La stanza è divisa in due parti da una fila di tende, ma la cosa più strana e che ci sono mobili: due letti da una parte della tenda, e il tipico divano-da-pranzo-con-panchetti dall'altra. Accanto al letto, una moto. Dal soffitto pendono immagini di santi e di martiri, insieme a cartoline di babbo natale...

Ci sono addirittura gli immancabili fiori finti.

Il menù è il solito delle grandi occasioni: ignassa, fagioli, riso, verdure alle noccioline, maiale, patate dolci, ananas, banane. Solo che tutto è in quantità industriale. E ti devi strafogare, per forza, altrimenti non capiscono, pensano che non ti piaccia... si offendono. Quindi ci ingozziamo, mangiando ovviamente tutto con le mani (facendo finta che sia ok sciacquarsele a malapena in una bacinella, senza sapone, dopo una mattina all'ospedale...), fino a stramazzare sul divano.

Poi restiamo lì, nel silenzio e nel dilatarsi del tempo, non so quante ore. C'è un'atmosfera di pace, di lentezza, di solidità antica. I figli, che non avevamo ancora conosciuto, sono andati a lavarsi e si sono messi i vestiti migliori per entrare da noi nella capanna.

Siedo per terra, mentre Maureen ci racconta storie del villaggio e le sue nipoti mi toccano i capelli incredule, intrecciandoli, chiedendo alla mamma se davvero non sono finti... La sorella di Maureen non parla inglese, e questo rende tutto ancora più lento. Mentre aspetta paziente le traduzioni, infila perline per noi, facendoci delle collane...

Poi arriva il glorioso momento di Peace, che si sveglia piangendo, nella sua culla accanto alla moto. E' nuda e ha i tipici fili di perline colorate attorno a collo, vita, polsi e caviglie. Viene lavata in una bacinella e poi imburrata e massaggiata con la margarina (!), dalla testa ai piedi (Dicono che serva come idratante...Non ho dubbi, ma così sembra quasi pronta per lo spiedo!).

La mamma vuole un ricordo di quel giorno, ci chiede di battezzare Peace con un nome cristiano.... Mio Dio, vorrei scomparire.... 5 lunghi minuti di panico! San Francesco.... Francesca! Mah, banale....


Vorrei restare in quella capanna almeno un paio d'anni.

Ma ce ne andiamo, prima del tramonto, con le nostre collane di perline e un piccolo groppo di nostalgia che si gonfierà nel tempo.