Kampala: due caramba in Uganda

E' strano quanto possa essere diversa un'impressione a distanza di tempo. L'altra volta Kampala mi era quasi piaciuta. Ok, ne avevo avuto un assaggio sfuggente, notturno, vago... e forse erano stati l'improvviso calore dell'Africa, le sponde del lago, gli odori forti e i colori ad avere il sopravvento, a modellare i giudizi.

Ora è tutto diverso, la città ci aggredisce, ci balza addosso come un cane rabbioso.

Sembra un salto nel tempo. L'effetto è debilitante.

Caos, casino di macchine, motorini, clacson, ingorghi, camion, gente, grattacieli, palazzi, centri commerciali. E matatu, ovunque, incastrati in ogni buco di spazio rimasto vuoto.

C'è una Kampala periferica che ha ancora un leggero sapore di Africa, ma c'è anche una Kampala moderna, civilizzata, assordante, affollata, tossica.

La cosa più stridente è che non c'è preavviso, nessuna sfumatura, nessun passaggio graduale. In poche decine di chilometri si passa dalla boscaglia ai grattacieli, dalla privazione alla sovrabbondanza, senza neanche il tempo di capire. L'effetto è quello di un enorme buco nero in mezzo al cuore verde di un Paese. Come un foro di pallottola.

Fuori da Kampala non si trova niente. A Kampala si trova tutto (o quasi).

Con lo stomaco ancora strabuzzante di spaghetti, ci lasciamo trascinare da Luca e Enrico in giro per la città, a bordo di un super SUV con vetri scuri e aria condizionata; non ci laviamo da più di due giorni, siamo terrose, stanche e stranite. Direi inadatte.

Ma loro sono carini, vogliono portarci a “prendere l'aperitivo” (sembra un'espressione così lontana...), sono contenti: avere due italiani nuovi, e per giunta donne, con cui parlare è davvero un evento.

Ci sediamo ad un bar, sul tetto di un enorme centro commerciale. C'è addirittura l'assurdità di una micropiscina, lassù su quel tetto.

Chissà perché, dentro di me immaginavo due italiani irriconoscibili, consapevoli, quasi ugandesi di adozione. In fondo sono qui da così tanto tempo...

Loro invece mi smentiscono in fretta. Non fanno altro che sgranare gli occhi: non riescono a credere che possiamo DAVVERO bere quella birra nel bicchiere che il cameriere ci ha portato al tavolo, invece che berla direttamente dalla bottiglia (e rigorosamente con la cannuccia!).

Ma siamo matti?!? Voi non vi rendete conto delle malattie che ci sono!!! Potete prendervi come minimo il colera.... E poi l'Ebola, che ogni tanto scappa fuori... Lo sapete che basta una sola stretta di mano per trasmetterla? e che gli organi si spappolano uno dopo l'altro e la gente muore dissanguata dall'interno fra atroci sofferenze??”

Cooosa??? Non vi siete neanche lavate le mani??”

Inutile tentare di tracciare loro un'immagine di dove e come abbiamo mangiato e bevuto negli ultimi tempi e di come probabilmente i nostri anticorpi si siano ormai trasformati in piccoli super-eroi... No, non capirebbero. Loro sono rinchiusi nel loro microcosmo italiano. Vivono in case italiane, guardando programmi televisivi italiani e mangiando cibo italiano (non hanno mai assaggiato neanche l'ignassa, che è la base dell'alimentazione dell'intera nazione!). Non prendono mezzi pubblici, non sono mai saliti su un matatu (e mai oserebbero! Che siamo matti?!?), non vanno al mercato, non conoscono la lingua locale, non ascoltano musica africana...

Praticamente sono in Uganda senza saperlo.

Non posso fare a meno di dire che Luca e Enrico sono stati semplicemente splendidi: gli italiani più ospitali, generosi, accoglienti e disinteressati che mi sia mai capitato di incontrare. E che sono riusciti a rendere un po' più tollerabile il nostro ritorno in Italia (impresa non facile). Ma non riesco a credere che si possa vivere così a lungo in un Paese, o meglio SCEGLIERE di viverci, rimanendo così totalmente impermeabili a ciò che ti circonda.

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