Moyo Babie's Home

E' strano, praticamente siamo in convento. Ognuna in una piccola e lunga stanzetta, semplice e incredibilmente pulita, dentro la casa delle suore. Un letto, una zanzariera, un tavolino, candele per la notte, e una preziosa scorta d'acqua in un secchio, per poterci lavare domattina.
La casa è un sereno microcosmo femminile (così diverso dalla casa dei preti di Oluko...) all'interno di un fatiscente e traballante edificio che continua a sfidare il tempo, noncurante del silenzio e del menefreghismo del Vaticano, che da decenni non si prende neanche la briga di rispondere alle innumerevoli richieste di aiuto per la ristrutturazione.
Niente luce e niente acqua. Silenzio. Nel lungo corridoio, niente capre né galline. Solo i passi leggeri delle suore e il miagolio di qualche gatto smagrito a caccia di topi.
Tutto il resto del mondo sembra inutile, così lontano e così inconsapevole.
Da qualche ora mi sto chiedendo: “Come farò a tornare a casa? Come potrò lasciare questi bambini e tornare alla vita normale?”. Non ero preparata a questo. Pur essendo già stata qui, solo una settimana fa, non sapevo, non immaginavo. Quella volta c'era stato un impatto forte, ma siamo scappati forse troppo in fretta per capire, per vedere davvero. C'erano scartoffie da riempire, documenti, soldi, dinamiche, traduzioni, foto.....
Oggi no. Siamo arrivate libere e sole, aperte, dopo 3 ore massacranti di un viaggio polveroso insieme al piccolo Fortunate.
La prima necessità è stata andare dai bambini. Dentro di me pensavo che sarebbe stato difficile, che ci sarebbe stato un muro, una barriera, forse più mia che loro. Invece è successo tutto in un attimo, uno sbattere di piccole palpebre.
Mi sono ritrovata circondata da decine di bambini, all'inizio diffidenti, poi sempre più sicuri, più allegri, più vicini. Mi prendono per mano, poi mi guardano con quei loro occhi umidi e grandi, di chi ha già vissuto così intensamente. Mi parlano, in questa loro lingua che è ancora diversa dal Lugbara: innumerevoli domande senza risposte.
Ma sono i loro sguardi, e i miei, a lasciarsi capire.
Forse se ne accorgono che sono qui per loro, che voglio dare loro tutto quello che posso, che li guardo in modo diverso dalle vecchie, indurite e severe care-takers a cui sono abituati. E si rilassano, sorridono sempre di più, si avvicinano sempre di più.
Dopo un po' mi sono completamente addosso. Mi abbracciano, mi stringono il naso, mi mettono le mani nei capelli, mi parlano ancora, mi tirano le braccia in ogni direzione, mi salgono in collo, mi si appendono alle braccia, alle gambe, vogliono che li faccia volare in aria, uno dopo l'altro...
E' il bisogno di contatto fisico la cosa che colpisce di più. Si legge loro addosso, nei gesti. Hanno bisogno di un abbraccio, di una faccia buffa, di una carezza, di un tocco. Alcuni di loro non hanno mai ricevuto un solo bacio in tutta la vita e Ruffina quasi si spaventa quando Raffaella gliene dà uno sulla testa: resta lì stupita a guardarla per qualche secondo, con gli occhi sgranati....
Ma non c'è traccia di tristezza in questi piccoli ometti che bastano già a loro stessi, abituati a fare tutto da soli. Privi di qualunque cosa, ma abituati alla condivisione, alla coesistenza solidale, a crescere velocemente, sostenendosi a vicenda. Si vede da piccole cose, immagini sparse. Qualcuno che condivide la sua caramella già mezza succhiata, qualcun'altro che, piccolissimo, prende in collo chi è più piccolo ancora...
Ed ecco la cosa a cui non ero pronta, ciò che più di tutto non mi aspettavo: è Amore. Un tipo di amore che non mi era mai capitato di provare, x nessuno mai. E' assoluto, potente e disarmante.
E' come essere attraversati da un fiume, un'energia sconosciuta, nuova. Ti lascia sopraffatto.
Mi abbandono al mio essere in mezzo a loro, lascio andare tutto il resto. Dopo un po' non esistono barriere, non esistono malattie, pidocchi, pantaloni bagnati di pipì che ti si appiccicano addosso, mani sporche nei capelli, muco e mosche... Ci sono solo i loro sorrisi pieni e la loro voglia di giocare.
C'è una parte di me che si rende perfettamente conto di quanto sia probabilmente molto più grande quello che loro stanno dando a me di quello che io sto dando a loro.
Restiamo con loro per ore, non ci lasciano più andare, neanche quando arriva l'ora di cena. Ci portano per mano nel loro stanzone, dove aspettano nudi e calmi che le care-takers riempano con le loro mani a cucchiaio quelle piccole ciotole di metallo. Polenta di kassava e fagioli.
Quando, faticosamente, ci separiamo da loro e ci avviamo verso la nostra prima notte di Moyo è come se all'improvviso tutto traboccasse fuori, diventasse semplicemente troppo da tenere dentro. Mi nascondo e piango, tanto, in singhiozzi, come una bambina disperata. E' come un mattone che si è smosso, un qualcosa che scappa fuori da solo, come uno sbuffo di vapore caldo nel terreno duro. Non so neanche perché piango. Forse è il peso di quelle piccole grandi solitudini, e della loro fierezza così forte. O molto più probabilmente è la consapevolezza della mia inutilità, della mia totale estraneità a quei bisogni, e a quelle vite, a quei futuri. Penso che tra meno di una settimana ce ne andremo da qui, torneremo a Oluko (che già mi sembra così lontana...), e poi di nuovo via, a casa, in mezzo alla nostra “normalità”. E forse sarà di nuovo come un piccolo abbandono per loro, chissà, si chiederanno perché siamo scomparse. O forse sarà un senso di abbandono ben più grande per noi...

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