Cena d'addio

Alla fine ci siamo, dobbiamo lasciare Oluko.

Fra qualche giorno, dopo una piccola sosta nella capitale, saremo in Italia; è difficile da digerire. Non c'è una singola cosa che mi faccia sentire la spinta di tornare a casa. Vorrei restare, almeno un paio di mesi ancora.

Mi mancherà questa terra, questi campi, questa vita fatta di niente e di tutto, mi mancheranno i ritmi così lenti e scanditi, a cui ormai siamo abituate. Mi mancheranno gli occhi lucenti di queste persone, le emozioni, e tutto ciò che qui ho imparato a conoscere di me stessa.

Father George ha deciso di fare una festa per salutarci. E “festa” significa cibo e bevande in bottiglia (il lusso più grande...) per tutti.

Passiamo il pomeriggio in giro per Arua a fare la spesa, caricando il pick-up di verdure, farina, frutta, bottiglie di birra e coca-cola.

Rosie cucina cantando, come sempre, mentre il cielo si tinge di rosso.

Oltre ai preti di Oluko e ai seminaristi c'è anche la suora comboniana che abbiamo conosciuto a Riki. E' preoccupata, domani partirà per i Monti Nuba, in Sudan, verso una nuova vita di privazioni ancora più grandi, per aiutare la sua gente. Ci racconta di ciò che l'aspetta, dei drammi profondi del popolo del Darfur, del deserto, delle mancanze e del clima implacabile. Pare che quello sia il luogo più duro di tutta l'Africa... Non la invidio, ma una parte di me vorrebbe seguirla.

Abbiamo richiesto espressamente di poter cenare fuori, nell'aia davanti alla cucina. E stasera, per la prima volta, mangeremo tutti insieme: i preti, Rosie, Sebastian, Valentine e tutti gli altri.

Prima di mangiare, la preghiera (ormai ci siamo abituate addirittura a questo...). Ma è una preghiera speciale: ci mettiamo in cerchio, con la sola luce di uno spicchio di luna e di una candela, e ci prendiamo tutti per mano. Poi, uno ad uno, gli altri prendono la parola e ci regalano il loro pensiero, il loro personale ringraziamento... Inutile dire che siamo commosse, e che il buio non riesce a nascondere del tutto le lacrime.

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