Murchison Falls National Park

Safari!
Mi sento quasi un po' in colpa all'idea di aver pagato dei soldi per entrare al parco e concedermi un giorno di vacanza... Però mi fa bene. Avevo bisogno di Natura, più di quanto riuscissi a rendermi conto.
Appena varcato il cancello mi sento improvvisamente un po' estranea agli altri. Sono assalita involontariamente da quei familiari sintomi da “naturalista”: qualcosa tipo acuire i sensi, estendere lo sgu
ardo, tracciare invisibili immagini di ricerca mentale, tormentarsi nel tentare di dare un nome alle cose... e in qualche modo fondere se stessi con quello che c'è intorno.
E' come respirare una boccata d'aria pura.
Dopo neanche mezz'ora eccoti un immenso collo in mezzo all'erba alta. E accanto, un altro piccolo collo trotterellante... La giraffa era t
utto quello che speravo di vedere. Ma dopo la giraffa COL CUCCIOLO in effetti potrei anche tornarmene subito a casa serenamente.
Passiamo in mezzo a gazzelle zampettanti, antilopi intimorite, bufali sorpresi, nella loro immobile espressione bovina. E piccoli uccelli autostoppisti a bordo di enormi elefanti fangosi che scendono lenti il profilo della collina, verso la loro doccia quotidiana.
La jeep corre veloce, troppo. Avrei voglia di urlare, fermare Gianluca, aprire lo sportello e farmi lasciare lì in mezzo all'erba. “Voi correte pure dove vi pare, che io resto qui a godermi questi elefanti”. Ma niente: abbiamo solo un giorno per fare tutto il giro, siamo in ritardo, e se non corriamo come furie nella savana rischiamo di perdere il ferry per attraversare il fiume.
Il Nilo è annunciato da un Martin Pescatore bianco e celeste. Scorre silenzioso ma potente, trascinandosi dietro piccoli isolotti d'erba e grovigli di giacinto d'acqua, la piaga che soffoca tutto il Lago Vittoria.

Come una legge universale, il ferry è in ritardo (ovvio...).
Aspettiamo fuori dalla jeep, mentre un ragazzo ci spiega la strada per arrivare alla cascata tracciando nella polvere una mappa delle piste. Il Nilo è come una Presenza, ed esercita di nascosto la sua influenza intros
pettiva anche su di noi, che ci snoccioliamo lungo la riva, ognuno perso dietro chissà che. Mi allontano nell'erba fangosa. Dopo un po' mi ritrovo ad osservare la mia scarpa immersa dentro ad un enorme impronta tonda e cicciotta. Il cuore accelera e impenna, pensando: Ippopotamo?
Poco dopo, uno “Sgruuuunf!” g
randioso sfugge dalla vegetazione lungo la riva, minacciosamente vicino. Ippopotamo! Devo attingere a tutta la mia (poca) razionalità per non mettermi a correre a rotta di collo verso la vegetazione e tuffarmi tra le canne per saltargli in groppa.
No via, l'ippopotamo non è poi così socievole....
Allontanandomi, mi volto e lo vedo: immensa massa scura galleggiante, con quelle sue buffe piccole orecchie che frullano impazzite a pelo d'acqua.
Il “Ferry” non è niente di più che uno scalcinato zatterone a motore largo precisamente quanto un paio di jeep, ma per fortuna galleggia a sufficienza.
Riprendiamo la fol
le corsa verso le cascate. Nel parco delle Murchison Falls il Nilo, che anche se ancora “giovane” è già un fiume più che rispettabile, si incunea dentro una spaccatura di roccia larga solo 7 m e fa un salto di più di 120 m. Ci avviciniamo alla sommità a piedi, seguendo una massa d'acqua agitata e scomposta, assordante. Ci arrampichiamo sulle rocce brillanti della riva, lasciandoci prendere dall'idea del “battesimo” con l'acqua del fiume sacro e degenerando subito dopo in una battaglia di schizzi.
Il sentiero si ferma proprio sul salto d'acqua.... e lì si ferma anche il cuore. Perché la cascata è uno spettacolo di potenza della natura. Il fiume si spinge nella roccia talmente forte che lo spruzzo risale verso l'alto quasi fino alla cima. Guardare tutta quella potenza dall'alto è spaventoso e ipnotico allo stesso tempo. Sei avvolto da una fitta nebbiolina di vapore e dall'abbraccio degli arcobaleni. Energia...
Resto lì immobile a guardare tutta quell'acqua, come un'ebete.

Disco

Oggi è festa nazionale: anniversario dell'elezione di Museveni. In giro c'è un gran movimento, sembra che tutti abbiano voglia di festeggiare. Stasera niente stelle, “si esce”! Ci hanno detto che a poco più di un chilometro dalla parrocchia c'è una discoteca, anche se sembra impossibile immaginarne una in mezzo alla campagna.

La luna non è ancora sorta e noi ci incamminiamo un po' incerti nel nero totale. La strada è, come sempre, popolata di persone che si muovono silenziose, sicure e invisibili in mezzo al buio. Accendere la tua piccola torcia da Musungu ti fa sentire un perfetto imbecille e rinunci in partenza. Ma dopo qualche buca a tradimento e qualche sasso di troppo, pian piano gli occhi si abituano al buio... ed è bello sondare l'oscurità affidandosi all'istinto. Purtroppo però i risultati sono un po' scarsi e non “sondiamo” abbastanza per prevenire l'arrivo di un pazzo su una bici lanciata a tutta velocità, che per poco non ci travolge (Semplicemente impossibile capire come riesca a correre nel buio, senza sfracellarsi dentro una di quelle buche).

Nonostante tutta la tua calma interiore, quella piccola punta di inquietudine da pregiudizi culturali ben radicati si fa sentire: in fondo sei pur sempre in mezzo alla campagna africana, al buio, senza che nessuno sappia dove sei, con gente che ti passa accanto...

Ci avviciniamo ad un gruppetto di persone che stanno camminando verso di noi, per chiedere informazioni. Il buio ci nasconde, forse non si vede che siamo bianchi, e quando arriviamo più vicino e proviamo a chiedere qualcosa, loro ci vedono, cacciano un urlo e scappano!

(Ovvero: la relatività dei punti di vista...)

Tra la strada e i campi c'è una costruzione fatta coi soliti mattoni di fango; si paga l'ingresso affacciandosi ad una specie di buco illuminato da una candela (1000 scellini. Circa 40 centesimi. Con tanto di classico timbro sulla mano). Dentro è quasi buio, ci sono solo un paio di lampade di Wood. Il generatore è ovviamente dedicato tutto alla musica, che è fortissima. Un pavimento di terra battuta scende a scaloni verso la pista, che è sempre di terra. Dall'altra parte si intravede un grande albero, e non si capisce bene se sia stato inglobato nella costruzione oppure manchi semplicemente una parete. Il soffitto è fatto con rami e teli di plastica.

C'è anche il bar: piccole cassette di legno rovesciate, disposte in fila lungo le pareti buone. Su ognuna di esse ci sono un lumino a petrolio, un paio di bottiglie di alcool fai-da-te di un infido color giallo sporco, 5/6 bicchieri di vetro e una bacinella d'acqua in cui sciacquarli.

La gente è tanta, ballano tutti, e sono meravigliosi... Musica locale, che ti prende direttamente dai piedi e ti rende impossibile stare fermo.

La presenza solida di Gianluca rende più facile tenere a bada le mani sguscianti degli uomini che ballano con noi, ma nel frattempo il micidiale alcool fai-da-te continua a dare i suoi bravi frutti sulla gente, e il livello di lucidità collettiva si abbassa sempre di più... Al primo accenno di rissa siamo fuori da tutto in 5 secondi netti.

Torniamo verso casa, sotto una luna bassa appena sorta.


Maracha's Hospital

Alla frase: “oggi dobbiamo fermarci all'ospedale di Maracha per consegnare gli scatoloni di medicinali” c'è un qualcosa che subito ti si blocca all'altezza dello stomaco, una specie di ingorgo. Ma lì per lì minimizzi, fai finta di nulla, ti dici: “ok, che sarà mai in fondo, un ospedale”.

Il problema arriva quando poi entri dentro sul serio...

Purtroppo non c'è modo di tirarsi indietro, questi dottori ci tengono. Anzi, insistono per farci fare il giro completo dei reparti.

Corridoio dopo corridoio, ad ogni stanza che attraversi è come se qualcuno ti posasse dei sassi sulla schiena, sempre più grossi e pesanti. Diventa quasi difficile camminare.

La cosa che colpisce per prima è l'odore, fortissimo. E' un misto di urina, di sporco, di sudore e di sangue non lavato. E poi le mosche... sui volti più sofferenti, sui corpi di chi non ha più abbastanza forze per scacciarle.

Le stanze sono affollatissime. Ci sono talmente tanti letti che a volte non rimane neanche un piccolo passaggio tra l'uno e l'altro. Sui letti, niente lenzuola; i materassi sono rivestiti con una specie di guaina di gomma, che chissà se qualcuno si prende la briga di lavare tra un paziente e l'altro. Per terra ci sono le stuoie, piene di bambini e parenti (mai sentito parlare di limiti di sovraffollamento...).

Ma la cosa che ti aggredisce di più sono gli occhi, gli sguardi delle persone. La maggior parte della gente non è in grado di sostenere le spese delle cure in ospedale e quindi arriva fin qui (magari trascinandosi a piedi per decine di chilometri) solo quando è in condizioni davvero disperate. E allora quella luce, quell'argento vivo dello sguardo che rende questa gente così speciale è scomparso, rimane solo il buio della sofferenza.

Ma ancora, nonostante tutto, tutti ti sorridono. Ti guardano entrare nella stanza e ti dicono: "Benvenuto".

C'è un reparto “Malnutrizione”, ed è pieno di bambini. Una mamma ci chiede sorridendo di fotografare il figlio, ed è praticamente l'unica foto che riesco a fare in tutto l'ospedale...

Dicono che, essendo un ospedale privato, questo è uno dei migliori della zona. Non riesco a immaginare cosa possano essere gli altri....

Verso Moyo

Oggi andiamo a Moyo, al confine col Sudan, per portare i soldi delle adozioni all'orfanotrofio della città. Partiamo così presto che uno strascico di notte ci lascia appoggiare finalmente gli occhi sulla Stella del Sud.
La jeep è pronta dal giorno prima, perché qui ogni viaggio in macchina è una mezza odissea, non è che puoi semplicemente “prendere e partire”....Devi controllare tutto, pensare, verificare. L'eventualità di rimanere fermi in mezzo al nulla non è da prendere neanche in considerazione e Gianluca ha fatto un check completo: motore, olio, liquidi, freni e non so che altro... poi ha legato dietro due taniche, una piena di benzina e una piena d'acqua.
Il bagagliaio è pieno di scatoloni: ci sono vestiti per i bambini, medicine, latte in polvere.
I circa 100 km tra Arua e Moyo richiedono quasi tre ore di viaggio, visto che la strada è un misto disastroso di buche giganti e piccole ondulazioni del fondo sterrato, create dal passaggio dei camion che usano questa strada per raggiungere il Sudan e portare aiuti umanitari in Darfur.
Mario dice che i paesaggi ugandesi non sono gran che in confronto alla Tanzania.... Beh, ci posso anche credere (non essendo mai stata in Tanzania...), ma a me sembra che anche l'Uganda se la cavi benino. La strada è dritta, di un rosso mattone, e segue profili infiniti di colline verdi.
Campi, savana, bosco secco, alberi di tek, manghi e jacarande fiorite. Capre dappertutto. E mandrie di strane mucche con enormi corna dritte, in mezzo alla strada.
Passiamo su piccoli “ponti” che assomigliano di più a guadi, costruiti con semplici tronchi appoggiati da una parte all'altra del rigagnolo di turno, mentre bambini nudi interrompono il loro bagno per guardarci passare, con quello sguardo ironico che sembra scommettere in silenzio che non ce la faremo ad attraversare il ponte senza rovesciarci..... (e in effetti, quel camion appoggiato su un fianco e abbandonato al bordo della strada darebbe ragione più a loro che a noi...).
Nessuna macchina. Raramente, qualche Matatu stracarico di gente, oppure qualche bombato camion anni '50 color pastello, pieno di banane, persone, sacchi, scatole, galline...
Gianluca sfoggia le sue capacità di guida. Le sue vecchie gare di corsa nel deserto affiorano magicamente ad ogni curva. In effetti è bravo, bisogna dirlo. E non è facile, le “ondine” sono ingestibili: per non sfasciare le sospensioni della macchina devi tenere una velocità che ti permetta di volare tra una cresta e l'altra (come col gommone!). Ma il confine è sottile: devi andare abbastanza veloce, ma non troppo, visto che dossi e crateri ti compaiono davanti sempre solo all'ultimo secondo.
Oltretutto la jeep sembra avere dei seri problemini di aderenza, e ad ogni curva sbanda di culo, mettendosi quasi per traverso (la sensazione è più o meno quella di finire catapultato fuori strada in media ogni 10 minuti).
Ma lui niente, tranquillo. N
on so come faccia a mantenere la concentrazione: 3 ore con le mani fisse sul volante e gli occhi puntati sul fondo stradale. E nonostante tutto trova la voglia di cantare, di proporre stupidi giochi per passare il tempo (tipo la gara ad individuare una perfetta sequenza di mucca/capanna da tabacco/uomo vestito di rosso/termitaio....).
Quello che ci distrugge è la polvere. Dentro la macchina ci sono piccoli diabolici vortici rossi che ci aggrediscono da tutte le parti. I rivoli di polvere entrano dallo sportello posteriore, dai finestrini, dalle fessure per l'aria, dal cruscotto. Siamo diventati rossi: vestiti rossi, volti rossi, capelli rossi. Raffa si addormenta e sogna di non riuscire a respirare...
Quando arriviamo a Moyo sembriamo un gruppetto di disperati: sporchi, stanchi e straniti.
Sister Maureen ci accoglie, insieme alle altre suore dell'orfanotrofio.
Siamo al Moyo Babie's Home, che accoglie circa 60 bambini da 0 a 6 anni. Qui l'Assos di Cremona ha avviato un progetto di adozioni a distanza e consegna direttamente le quote per i bambini due volte all'anno, insieme ad eventuale materiale raccolto in Italia, medicine, vestiti ecc.
Sapevo che sarebbe stato duro, ma non mi aspettavo che l'orfanotrofio mi colpisse con tanta forza. E' uno schiaffo di dolore, tristezza e impotenza.
I bambini sono molto piccoli, ti corrono incontro con quei loro occhi troppo grandi, nei loro vestiti sporchi e strappati, cercando di aprirti la borsa per cercare caramelle. Sono tantissimi, e sono induriti dalla solitudine.
La mente viene lapidata dalle immagini. Lettini arrugginiti e bambini magri, soli e malati di malaria; piccoli volti e nasini pieni di muco e mosche; una minuscola bimba prematura, nata di 7 mesi e avvolta in un'improvvisata incubatrice fatta di cenci e coperte; sguardi insondabili di chi osserva lo strano Musungu che arriva all'improvviso, portando i soldi per il cibo...
Dobbiamo riempire scartoffie, parlare con la suora, prendere accordi per le adozioni future, fare fotografie per le famiglie adottive. Ma è dura mantenersi “impermeabili”, non ce la faccio. Sono
impantanata in queste immagini, in questo odore di solitudine, di mancanze. E in questo senso di assoluta impotenza.
Sulla strada del ritorno facciamo una sosta ad Aluma, piccolissimo villaggio in cima alle colline dove lo scorso anno l'Assos ha costruito una scuola elementare
e ha avviato il progetto “Adotta un Maestro”, che consente agli insegnanti locali di lavorare alla scuola.
Per raggiungerlo dobbiamo deviare dalla strada, attraverso i campi, scansando mucche e galline e sperando di non trovarci davanti qualche fiume a tradimento. Quando arriviamo alla scuola, proprio in cima alla collina, la voce del nostro arrivo è già corsa di bocca in bocca e molte persone arrivano a salutarci. Aluma è bellissimo, sembra quasi di essere in montagna e non c'è traccia della solita
bassa foschia. C'è una luce dorata e guardando verso valle sembra di vedere il mondo intero.
Ma non c'è tempo, Gianluca preme, scalpita e ci ricarica in macchina quasi subito.
“Non voglio guidare di notte...”.
Poi capisco perché: guidare di notte è una specie di suicidio. Ovviamente l'illuminazione stradale non esiste, ma il vero problema è la polvere. La luce dei tuoi fari rimbalza contro i muri solidi della polvere smossa dai camion, ed è impossibile vedere qualunque cosa. Il che non sarebbe poi un problema impossibile, se solo la strada fosse mediamente definita. Peccato che invece l'asfalto assomigli più al bordo di una lunga foglia mangiucchiata dai bruchi, e che si apra a sorpresa in baratri di mezzo metro di profondità...
Come ciliegina sulla torta, man mano che ti avvicini alla città ci sono persone, bambini, biciclette,
capre, carretti che si muovono nel buio ai bordi delle strade, completamente invisibili. E' incredibile, non ho la più pallida idea di come faccia, ma credo che Gianluca stia guidando A INTUITO. Io non riesco neanche a guardare; per fortuna mi sono seduta dietro.
Raffaella invece è davanti, ed è bianca e muta.
L'incrocio per Oluko stavolta è un miraggio dolce: anche se è notte, conosciamo ormai ogni singolo sasso della strada e possiamo rilassare un po' lo stomaco.
Vado a letto, e non riesco a smettere di pensare ai bambini di Moyo.

Informazioni stradali

Arua è a soli 15 km dal confine con il Congo. Decidiamo di fare un tentativo, passare il confine e raggiungere il villaggio congolese in cui lavorano due italiani che Gianluca ha incontrato per caso e che hanno avviato alcuni progetti di microcredito da cui poter prendere spunto.

Ma c'è un che di surreale nell'abbassare il finestrino della jeep e sentire la propria voce chiedere: “Scusi... Andiamo bene per il Congo?”.

Alla fine ci arriviamo davvero, sul confine. C'è una striscia di terra di nessuno larga qualche centinaio di metri, tra due sbarre di ferro. Dentro la striscia, una capannetta con un paio di poliziotti. Gentilissimi ma irremovibili: per entrare in Congo si pagano 100 dollari a testa, anche solo per 10 minuti. Niente da fare...

Messa

Domenica. Se finora siamo riusciti a sfuggire, oggi non c'è verso, tocca andare alla messa per forza. Incredibile, praticamente la mia prima messa! Ma nonostante le perplessità e la levataccia alle 7,30 di mattina, è bello sentirsi parte di questo flusso lento di persone...

Lo spazio davanti alla chiesa è pieno di donne e bambini seduti per terra. Chi mangia canna da zucchero, chi allatta, chi si fa intrecciare i capelli.
Dentro è ancora peggio: un muro di gente. La chiesa è strapiena, roba da far stramazzare di invidia qualunque prete europeo....
Tantissimo colore. Pareti un po' gialle, un po' rosse, un po' verde menta, con una striscia picchiettata (e un po' sbrodolata..) a mano, di almeno un'altra decina di colori diversi. E poi i colori delle persone, delle stoffe, dei turbanti delle donne.
Mario e Gianluca (gli esperti) chissà dove sono. Noi entriamo e ci sediamo, a caso, sulla prima panca con due buchi liberi. Per pura fortuna abbiamo azzeccato il lato giusto: donne a sinistra e uomini a destra, ce ne siamo accorte solo dopo.
Siamo pigiati come sardine. Accanto a me c'è una bambina piccolissima; appena mi vede, così schifosamente bianca, si mette a piangere. Poi decide che forse non sono troppo pericolosa e comincia a giocare affascinata con il mio orologio.
La messa è molto bella, fa un po' strano dirlo, ma è vero. I preti parlano poco e la gente canta molto. Cantano, si muovono, ondeggiano, battono le mani. Ci sono grandi tamburi e uno strumento che sembra un enorme ferro da stiro a corde. E c'è un'intensità speciale nel loro modo di cantare preghiere. Forse perché sono convinti...
E sono gioiosi, trascinanti, potenti. Si avverte un'energia forte lì dentro.
Father George ci risveglia dal torpore mettendosi improvvisamente a parlare inglese e introducendoci alla comunità, per spiegare cosa stiamo facendo ad Oluko. Poi ecco la bella idea di presentarci personalmente uno ad uno, facendoci alzare in piedi in mezzo alla chiesa, nel silenzio generale... Cavolo, non ero preparata a questo! Ci sono un paio di centinaia di occhi puntati verso di noi, pieni di curiosità e di aspettativa. George ci invita sull'altare a parlare. Per fortuna che Raffaella si immola per la causa e, forte del suo migliore inglese, mi solleva da questo impiccio.... Grazie Raffie.

Mattoni

Mattoni, mattoni, mattoni... Qui non fanno altro che fare mattoni. Ci sono mattoni dappertutto, in città come in campagna, lungo le strade come in mezzo ai campi; enormi distese di blocchetti neri e ordinati.

Sono fatti di fango, e certo qui quello non manca... basta trovare l'acqua.

Dopo aver inzuppato il terreno, il fango ottenuto viene impastato con le mani e messo dentro a piccoli stampi di legno. Chi non possiede uno stampo incide il terreno con uno spago tenuto ben teso tra le mani, generando i mattoni più irregolari che il mercato edile abbia mai osato chiedere.

Poi i blocchetti vengono ordinatamente stesi l'uno accanto all'altro, in verticale, e lasciati seccare al sole per qualche giorno. Dopodiché un instancabile lavoro di passamano li raggruppa tutti in cataste enormi, perfette, che vengono ricoperte completamente di fango e poi compattate. Alla base delle cataste ci sono grandi fori in cui viene messa legna ottenuta abbattendo liberamente ogni piccolo o grande albero abbia la sfortuna di trovarsi lì nei pressi.

Il fuoco brucia per una notte intera. Poi la catasta viene “sbucciata” liberando i mattoni, che ora sono diventati duri. E rossi...

Fare mattoni è l'ABC del business, il primo gradino nella piramide degli affari. Ce ne sono talmente tanti che all'inizio ti chiedi cosa diavolo se ne facciano, come riescano a usarli tutti, visto che raramente vedi costruire nuove capanne... Un vero mistero.

Altro mistero: il trasporto. Proprio mai ti capita di vedere qualcuno che arriva e se li porta via. Che ne so, un camioncino, una bici, una mucca, qualcosa.... No. Quei pezzi di fango secco sono sempre lì per terra dove nascono. Passano attraverso tutte le loro fasi, dall'impasto alla cottura, fino a che un giorno, misteriosamente, ecco che sono scomparsi, lasciando come traccia solo un largo spazio vuoto nel terreno.

Usare la testa

La testa è come un quinto arto per le donne africane. E' come un dono, un piccolo miracolo.

Per queste donne fatte di ossa e nervi, instancabili, inaffondabili, tenaci, silenziose e sorridenti nella loro fatica quotidiana, nel loro macinare chilometri e chilometri a piedi, dall'alba al tramonto, portando con sé figli, capre, galline, maiali... in un viaggio polveroso che non ha mai fine, che si ripete giorno dopo giorno.

La testa è, semplicemente, un'estensione delle braccia. E' come una piccola piattaforma sicura dove il movimento delle mani, dopo aver raccolto qualcosa, termina istintivamente la propria corsa.

Non importa che il carico sia piccolo, enorme, leggero o intollerabilmente pesante; tutto finisce naturalmente lassù in alto. E neanche la forma dell'oggetto ha importanza. E' come se avessero una specie di sesto senso, qualcosa di impercettibilmente preciso, per trovare l'esatto baricentro di qualunque cosa passi loro tra le mani. Basta soppesare qualcosa per un attimo per scoprire quell'angolino segreto, quel sottile spigolo magico che fa restare tutto in piedi da sé...

Ma il miracolo non è tanto il fatto che lo tengano sulla testa, quanto il fatto che, nel frattempo, facciano magari 30 km a piedi, parlando, allattando un bambino legato dietro la schiena (senza smettere di camminare), girandosi a salutare, mangiando canna da zucchero....

E' come se il collo avesse una vita propria, completamente indipendente dal resto del corpo. Il collo è FISSO, sempre. E' il resto del corpo che si muove. Magari sotto ad un sacco di carbone lungo un metro e mezzo e pesante 30 chili...

All'inizio le guardi camminare e pensi “No, è fisicamente impossibile. C'è un trucco..”. Poi ti abitui pian piano, diventa normale... e allora cominci a concentrarti su QUELLO che riescono a portare.

Ebbene, non c'è limite. Sulla testa puoi portare banalmente fagotti di stoffa, cesti, casse, scatole, tinozze e taniche... Oppure, se sei “avanti”, puoi portare caschi di banane, fascine di legna, cocomeri interi, tronchi di bambù lunghi 6 metri, una macchina da cucire, un braciere con teiera incorporata. Ma la più avanti di tutte, che non dimenticherò mai, portava sulla testa un intero salottino da the: un tavolino di legno rovesciato, con dentro 4 panchetti, due bracieri, due teiere e tazze per tutti...

"Here comes the sun..."

L'anno scorso i volontari dell'Assos hanno installato a Oluko, oltre ad un sistema di raccolta per l'acqua piovana, una pompa per attingere l'acqua direttamente dalla falda. In questo modo la gente del villaggio può avere accesso ad una fonte di acqua pulita e soprattutto stabile nel tempo. Peccato però che la benzina per alimentare la pompa costi un sacco di soldi e così i preti non siano in grado di garantirne il funzionamento quotidiano.
Quest'anno allora Mario ha pensato di sostituire la pompa elettrica già esistente con una nuova, alimentata ad energia solare.
Gli eroici pannelli sono sopravvissuti ad un paio di voli e al viaggio infernale a bordo del bolide di Benny; se non altro sembrano collaborativi.
L'assemblaggio dell'impianto non è tanto immediato, anche perché gli strumenti che abbiamo a disposizione sono poco più che le nostre mani. Ma qui “tutto si può”... E abbiamo come aiuto un variopinto team di improvvisati installatori: il ridente e giovane Valentino, il silenzioso e vecchio Pietro e il dinoccolato Sebastian (ebbene sì, qui i nomi sembrano tutti italiani....Potenza del cattolicesimo).
La vecchia pompa elettrica deve essere recuperata in fondo al pozzo e sostituita, insieme ai 50 metri di tubo sotterraneo che portano l'acqua della falda fino al grande tank che raccoglie anche l'acqua piovana. I pannelli nuovi vanno collegati e fatti funzionare, quelli vecchi vanno recuperati su un fragilissimo tetto di lamiera, riparati, e fissati su lunghissimi pali d'acciaio che li mantengano ben esposti alla luce, nonché ragionevolmente protetti dal furto.
Sotto le direttive di Gianluca passiamo 3 giorni a segare, sfoltire, scavare, misurare, annodare, inchiodare, fascettare, trapanare (il mitico trapano a mano!), interrare, sondare, cementare, issare...
Gli occhi di Father George sono sempre più luminosi, giorno dopo giorno.
Alla fine eccolo lì, il magico rigagnolo d'acqua... Un rivoletto piccolo, a prima vista quasi ridicolo, ma costante e immutabile. E soprattutto: gratuito. Da oggi il tank non smetterà più di riempirsi e la comunità avrà una scorta di acqua pulita tutto l'anno, tutti gli anni. Senza costi. Devo ammettere che è una bella sensazione.

Distanze

A volte non è facile essere qui. Devi convivere con i tuoi contrasti, i controsensi, le molte domande senza risposte.

C'è una parte di te che, soprattutto all'inizio, PRENDE. Si nutre dell'atmosfera, della diversità, della bellezza, della pace, della gente, delle sensazioni positive. E c'è l'altra parte, più silenziosa, che viene fuori più lentamente: quella che sente una spinta sempre più forte a dare, lasciare qualcosa.

Il problema è come farlo. Sembrerebbe banale, invece non è semplice. Prima di tutto perché all'inizio ci sono un sacco di cose che devi capire: ritratti della realtà, ma anche dinamiche, contesti, rapporti fra persone e fra istituzioni... Sei un po' a traino, passivo. Osservi soltanto, cercando di capire.

Poi, mentre cominci a capire, cominci anche a renderti conto davvero, toccando con mano, di quanto sia enorme quella differenza fra te e tutte le persone che hai intorno. Sì certo, lo sappiamo tutti, è l'eterna storia Occidente-contro-Sud-del-Mondo, ricchezza e povertà, squilibri profondi e insanabili, eccetera.... ma quando ti ci trovi in mezzo è diverso, lo vedi, lo respiri, lo assaggi. C'è un qualcosa di profondamente sbagliato, e te lo senti addosso come una macchia. Anche tu, che nel tuo piccolo mondo di benessere sei l'ultima ruota del carro e ti barcameni come puoi per raccattare dei soldi per pagare le bollette e regalarti qualcosa ogni tanto, qui sei enormemente, intollerabilmente ricca. Tanto che con un mese del tuo tanto disprezzato stipendio potresti risolvere le vite di molte persone, consentire loro di avviare attività di lavoro, garantire l'istruzione per anni a intere classi di bambini.

E' pesante. Ti viene voglia di aprire i tuoi rubinetti e regalare tutto quello che puoi, riempire più bicchieri possibile, lasciare che le distanze si colmino almeno un po'...

E poi, riflettendo ancora, arginato anche da chi è più saggio di te e ha già visto tutto più e più volte, capisci che non puoi farlo. Perché è un concetto sbagliato, un approccio dannoso, un ingigantire la figura del bianco-ricco che, nell'immaginario di tutti, arriva qui e regala soldi alla gente.... E soprattutto non risolve le cose. Il buon vecchio Confucio non era uno scemo... non serve a molto regalare dei pesci a qualcuno che poi non sa come pescarne altri.

Senza contare il fatto che se cominci a regalare non c'è limite a quello che ti puoi trovare di fronte. E nessuna di tutte le decine di persone che comincerebbero a chiedere dovrebbe avere meno diritto degli altri a ricevere qualcosa.

Bisogna dare il proprio apporto in termini di mezzi, di strumenti, di approcci, di comunicazione.

Ed è ancora più difficile.

Vernici, pennelli & Co.

Proprio accanto alla parrocchia ci sono le scuole pubbliche: Primary e Secondary School.

E per togliere molti bambini più piccoli di 6 anni dai campi e cercare di sviluppare un tipo di istruzione più precoce, l'anno scorso l'Assos ha avviato anche la costruzione di una Nursery School. I lavori sono praticamente finiti, rimane soltanto da imbiancare tutto e da mettere lavagne e vetri alle finestre.

La politica dei progetti curati dall'associazione è quella di cercare il più possibile di dare lavoro alla gente del posto, piuttosto che realizzare qualcosa sfruttando solo le proprie forze. E noi possiamo contare sul viso tondo e sugli occhi furbi di George The Constructor che, oltre ad aver costruito l'enorme orfanotrofio di Redeema, finanziato dall'European Refugee Fund di Londra, ha seguito l'intera costruzione della Nursery di Oluko fin dall'anno scorso. Ma, visto che la filosofia dell'African Time vale doppiamente in campo lavorativo, e visto che noi invece abbiamo una certa fretta di finire tutto in tempo per l'inaugurazione di sabato prossimo, ci autonominiamo imbianchine e, con la scusa di dare una mano, diamo anche una spinta ai lavori.

Lavorare con il gruppo di George è una specie di esercizio zen.... devi imparare a mantenere la calma e a rimuove dal tuo cervello qualunque concetto di “ottimizzazione”. Tu devi solo fare-cose (possibilmente con calma), seguendo il flusso degli eventi e senza farti troppe domande.

Per esempio, è impossibile pensare di pretendere che qualcuno ti dica fin dall'inizio QUANTA vernice è necessaria. Ogni giorno ti sentirai comunque dire: “La vernice non basta....”

Ok, QUANTA vernice devo comprare?”

Oh, mah, boh, 5-6 taniche.... magari 7.....”

Tu ne compri 8, e sicuramente non basteranno.

Ma non pensare di poter semplicemente fare i tuoi calcoli da solo e risolvere la questione... Già, troppo facile: la diluizione viene fatta a caso, per cui quello che oggi ti basta per fare una parete, domani ti può bastare per farne due, oppure un quarto.... chissà.

D'altra parte non è che puoi metterti a dettare legge su come devono essere fatte le cose. Qui fanno così. Punto. E' l'approccio mentale che è diverso, e quando provi a suggerire modi per ottimizzare, ti trovi davanti gli occhi vacui di chi, molto educatamente, sta pensando (senza dirtelo): “ok, ma PERCHE'?”. Giusto, in fondo tu sei l'unico che subisce la pressione di quella cosa chiamata “fretta”... Quindi sei tu a doverti adattare.

Ma “comprare la vernice” significa prendere la jeep, arrivare fino in città buca dopo buca, perdere almeno un'ora e mezzo dall'Indiano (anche se davanti a te non c'è nessun altro cliente...), tornare indietro sempre buca dopo buca, cercare gli imbianchini che nel frattempo sono scomparsi in mezzo ai campi, e perdere una mezza giornata di lavoro...

...African Time.

Arriviamo alla scuola a piedi, la mattina quasi-presto, con una piccola scorta di bambini. Le donne del villaggio ci salutano da una collinetta di roccia nera, lucida e liscia, su cui distendono a seccare una nevicata di radici bianche di kassava, pronte per essere schiacciate e macinate per fare la farina.

Le scuole sono ancora chiuse per le vacanze e i bambini non ci abbandonano praticamente mai, si danno tacitamente il cambio durante la mattinata. Qualcuno ci guarda da lontano, qualcuno ci aiuta spazzando le aule con fronde d'albero, qualcuno accarezza le pareti appena verniciate, imbrattandosi le mani e la faccia di vernice. Ridono.

I più piccoli non sanno l'inglese e comunicano con noi fischiando. Inventano frasi fatte di fischi e aspettano che rispondiamo, ripetendo il suono...

Pensavo di sapermela cavare egregiamente come imbianchina. Ma qui anche passare il rullo è diverso... eheh.

  1. Prima di tutto hai un rullo sostenuto da un ramo d'albero, per cui scordati di poterlo scuotere per sgocciolare la vernice...

  2. Il contenitore della vernice è un catino rotondo (di nuovo, non puoi sgocciolare il rullo, neanche arrotolandolo sul bordo del secchio...)

  3. C'è un solo contenitore per tre imbianchini. Il che significa che tra una passata e l'altra c'è almeno la distanza di mezza aula (e le aule sono mooolto grandi).

E allora come si fa? Tom mi illumina dolcemente: per caricare il rullo di vernice il più possibile (per non dover fare 200 viaggi) senza inzupparlo (perché poi non puoi scuoterlo) devi accarezzare appena la superficie della vernice, né troppo né troppo poco, arrotolando velocemente il rullo, con gioco di polso. Poi devi dimenticare la frenesia delle tue energiche rullate, con cui passavi e ripassavi sopra uno stesso punto, premendo forte contro la parete per far penetrare la vernice anche nei pori più grandi... No, no NO! (leggi: pennellata isterica da italiano isterico...). Qui, magicamente, con una sola rullata fai tutta la parete, dal soffitto al pavimento. Appoggi piano in alto e poi, sempre piano piano, per non spampanare la (troppa) vernice ovunque, vieni giù diritto per 5 metri. Voilà! Ovvio, ci metti il doppio del tempo, ma chi se ne frega? Ti sei stancato di meno e non hai fatto neanche uno schizzo per terra. Piccola grande pigra saggezza...

Good Hope Orphanage

Florence e suo marito hanno una casa-famiglia alla periferia di Arua, in cui vengono ospitati circa 25 orfani dai 3 anni in su. L'Assos sostiene le spese annuali per il cibo, la scuola e le cure mediche dei bambini tramite le adozioni a distanza, e due volte all'anno invia volontari per consegnare i soldi direttamente nelle mani dei gestori dell'orfanotrofio, a differenza di quanto succede presso altre strutture analoghe, in cui il denaro tende a smarrirsi strada facendo, magari anche senza che ci sia necessariamente malafede da parte dell'associazione stessa, ma semplicemente per via delle complesse dinamiche burocratiche africane.

Lo spazio all'interno della casa è poco, e i bambini più grandi dormono fuori, in una baracca senza finestre e senza letti, tutti insieme. Le condizioni del dormitorio e delle latrine sono pessime, ma in compenso tutti i bambini sono in grado di poter studiare, addirittura fino alla Secondary School, contribuendo in minima parte alle spese della famiglia attraverso la fabbricazione e la vendita di mattoni.

Ci hanno invitato a pranzo: Matoke (uno stufato di banane verdi giganti), riso, ignassa, fagioli, Sukrumawiki (piatto keniota a base di verdure che, letteralmente, significa “spingi una settimana”.... tutto un programma....) e frutta. Mangiamo tutti in silenzio, dopo un'ora di scartoffie, fogli, foglietti, accordi, dettagli, foto, consegne.... Elajah (3 anni) ci guarda, serissimo. Non sorride e non parla mai, sembra uno spiritello saggio, con quella sua piccola testa a forma di mezzaluna.

Ci hanno preparato uno spettacolo di benvenuto, dentro l'aula fatta di bambù dove fanno lezione la mattina. Lo spettacolo è bello... loro suonano djembè, cantano, ballano, muovendosi scalzi e morbidi come gatti... ma la situazione è imbarazzante. Mi chiedo come ci vedano, quale sia la loro immagine di noi, che arriviamo da lontano, così diversi, con in tasca i soldi per la loro sopravvivenza e le nostre macchine fotografiche assetate di immagini, per ignoti genitori adottivi altrettanto assetati di inutili simboli...

Dobbiamo visitare un pezzo di terreno da acquistare per un progetto di ampliamento dei dormitori che (forse) verrà finanziato il prossimo anno e ci intrufoliamo in mezzo ai vicoli, fra orti, capanne, panni stesi e stuoie piene di gente che ci guarda passare con occhi interrogativi. Il terreno è grande, ci sarebbe addirittura l'acqua... peccato che il progetto di costruzione dei dormitori in quel punto preveda l'abbattimento di un paio di capanne fatiscenti, piene zeppe di gente poverissima! No, Mario dice che non se ne fa di nulla (per fortuna...) e che devono trovare altra terra.

Torniamo ancora, un paio di volte. Alla fine pare che la soluzione più scontata sia anche la migliore: il progetto potrebbe essere realizzato accanto alla casa, dove lo spazio è abbastanza grande. Sembra un posto perfetto, e viene da chiedersi come mai non sia stato preso in considerazione fin dall'inizio...

In effetti qui è estremamente complesso gestire progetti, di qualunque tipo. Sembra sempre che ci sia qualcosa di insondabile, di non-detto, qualcosa che non sei in grado di prevedere o di valutare. L'unico (raro) appiglio che hai è la fiducia nella persona con cui hai a che fare, e Florence si è conquistata questa fiducia nel tempo, con la sua limpidezza, la correttezza, la precisione e quello sguardo pacato e intelligente.

Non possiamo fare molto altro che fidarci di Florence e dare l'ok. Se il progetto verrà finanziato l'orfanotrofio avrà dormitori e bagni nuovi, e sarà in grado di ospitare altri bambini.


African Time

Il concetto di Tempo qui è diciamo approssimativo. Le ore del giorno si dilatano in modi ogni giorno diversi, a seconda del momento, degli eventi e delle necessità.

In effetti, l'orologio è un oggetto perfettamente inutile.

La fretta non esiste, così come la puntualità. Se qualcuno fissa con te per le 8,00, arriverà come minimo alle 10.30, sorridendo, a passi lenti, completamente in pace con se stesso, come fosse perfettamente normale che tu sia stato ad aspettarlo per due ore e mezzo.

All'inizio ti arrabbi, provi a bofonchiare qualcosa... Loro ti guardano, con occhio vuoto, senza capire. Poi sorridono di nuovo, allargano le braccia e fanno: “African Time....”. E con questo vorrebbero dire che sei te il cretino che si agita tanto... In fondo chi te lo ha chiesto di stare lì ad aspettare? Lo sanno tutti che la gente arriva quando vuole.

Infatti. Se non vuoi diventare isterico ti devi adattare...

Sveglia

La notte è breve a Oluko. Il risveglio è scandito dal rimbombo del tamburo che, la mattina prestissimo, quando è ancora buio, annuncia la messa. Il tamburo è vicino, proprio sotto le nostre finestre, ma non sono mai riuscita a vederlo (e soprattutto a scoprire CHI lo suona..). Fa un rumore profondo, caldo, che ti entra nel sonno dolcemente, senza troppa invadenza. Il suono è come una grande palla che rimbalza: un primo “Tum” isolato, poi altri, più leggeri e sempre più ravvicinati.

Finito il tamburo, ecco le capre. Le capre qui fanno un verso intollerabile, che ha poco di “animale”. Non è un belato, è un urlo. Assomiglia al pianto di un bambino. Un pianto urlato, straziante. A volte entrano nel corridoio accanto alla camera e se lo fanno tutto di corsa urlando “Svegliaaaaaa”...... E l'unico pensiero è quello di potergli tirare il collo.

E poi i bambini, quelli veri. Arrivano vicino alle nostre finestre con le loro voci accese e ridenti, riempiono le piccole taniche d'acqua, se le caricano sulla testa e tornano lentamente alle loro capanne.

Ma il risveglio più bello è quello che ti coglie nel cuore della notte, quando nei tuoi sogni si infiltrano i rumori di qualche funerale in uno dei villaggi vicini.

Il silenzio assoluto della notte viene risucchiato dal suono di canti e di tamburi. Nel dormiveglia, hai l'immagine nitida di un fuoco in mezzo al buio, con molte persone intorno che cantano e ballano a un ritmo frenetico... C'è una vena di inquietudine, di timore arcaico. Ma anche una forte, fortissima attrazione. Qualcosa che ti prende lo stomaco e vorrebbe spingerti ad alzarti dal letto in punta di piedi, infilarti un paio di scarpe a caso, buttarti fuori nel buio e seguire quel suono fino alla fonte....

Soffitto di stelle

Dopo cena ci aspettano le stelle. E detto così sembrerebbe quasi una robetta da nulla... però mamma mia, QUANTE sono!!!!! E' incredibile.... E' come essere in mezzo al mare. Quando guardi costellazioni che si vedono anche da noi vedi un sacco di altra roba nel mezzo.... “E quella? Cos'è? Dov'era finora??”.

Ma, in base al tempo che passa, abbiamo anche l'opzione n°2: Luna. Una luna talmente potente che, quando è piena e il cielo è sereno, il pannello solare riesce a funzionare debolmente...

Portiamo le nostre sedie intrecciate in mezzo all'aia e guardiamo su. Parliamo, o ci godiamo semplicemente il silenzio, ci facciamo un tè di mezzanotte con l'acqua del thermos, ci prendiamo in giro ridendo delle nostre vite...

Ma il balzo in avanti è stato l'avvento dell'amaca. Io e Gianluca ne abbiamo costruita una, con due grossi rami e un'infinità di corda da annodare, e l'abbiamo piazzata sotto le stelle, tra la casa e il tank dell'acqua piovana. Impagabile....

Nel buio

Non è che la corrente scarseggia... è che non arriva proprio, non c'è. I pali della luce finiscono ad Arua (ma anche lì la corrente c'è solo per qualche ora al giorno), e da lì in poi è il buio.

Alla parrocchia c'è un pannello solare, con cui i preti alimentano una fiochissima lampadina dentro alla sala comune. Ci sarebbe anche un piccolo generatore, ma la benzina costa troppo... e ovviamente è meglio tenerla da parte per le grandi occasioni, ovvero le partite di calcio! In questi giorni si gioca la Coppa d'Africa e Father George spende i suoi soldi in benzina per poter mettere la televisione a disposizione della gente. La potenza del Calcio...

Quindi buio. Uno penserebbe a candele, lampade a petrolio, torce a pile..... ma no, ovviamente tutto ha un costo, ed è sempre un costo che qui le persone non si possono permettere.

E visto che il sole tramonta presto, la gente continua a muoversi, così semplicemente, nel buio. Come niente fosse. Le persone camminano per strada, si fermano al mercato, guidano la bici, preparano la cena. Tutto al buio. Ci sono candele solo nelle baracche che vendono pane e roba varia lungo la strada principale.

Dopo un po' la tua stupida super-pila-ricaricabile-a-led comincia a darti un po' noia. E passi alle candele; candele in camera, candele sotto la doccia (quando c'è l'acqua..), candele per scrivere.

Ma ancora non ti senti troppo bene con te stesso, vorresti poter eliminare anche quello, fare come tutti gli altri. E' che siamo inferiori, c'è poco da fare...

Un incontro

Sono tornata al ruscello; al tramonto c'è una luce pazzesca. Il profilo delle colline di fronte è interrotto da sagome di donne che camminano lente, tornando a casa con i loro fagotti sulla testa.

Giù al ruscello c'è solo un uomo che fa pascolare la sua mucca, con lentezza implacabile.

Io mi fermo a guardare il sole, in mezzo all'erba, su una catasta di mattoni di fango pronti per essere cotti. Dall'altra parte del ruscello sta scendendo un bambino, sui 4 anni, con la sua tanichetta da riempire. Sta correndo a rotta di collo verso l'acqua. Poi mi vede. E si immobilizza. Io ferma, lui fermo. Rimane a guardarmi così da lontano per un po' di minuti. Poi, pianissimo, solleva una mano e accenna un saluto. Io rispondo. Poi ancora fermi. Dopo un po' un altro ciao con la mano, stavolta un po' più spavaldo. E poi un sorriso. Sorrido anch'io, e di nuovo fermi. Poi, dopo ancora qualche altro minuto di dubbio eccolo, risoluto, che si decide: “Ok, vado!”. E all'improvviso si butta di corsa giù per il sentiero, attraversa il ruscello, risale dalla mia parte e, mordendosi il labbro di sotto, mi viene incontro... Mi tende timidamente la sua piccola mano e, con il sorriso di chi sta vivendo un'esperienza da raccontare, stringe piano la mia, guardandomi fisso negli occhi.

Poi si volta e, con passetto saltellante e soddisfatto, se ne torna verso casa con la sua tanica ancora vuota.


Jokoni (cucina)

La cucina di Oluko è esattamente il tipo di cucina in cui nessun occidentale sano di mente vorrebbe veder cucinare i propri pasti. Ma è la cucina più appagante che abbia mai avuto. Non è una stanza, ma un piccolo mondo a sé. Un fulcro caldo, fumoso e odoroso attorno a cui ruota la giornata delle persone.

Nei villaggi intorno, la cucina è un semplice braciere di terra battuta all'interno (o all'esterno) della stessa capanna in cui dormono tutti. Alla parrocchia invece no; qui, dove vige il lusso sfrenato, c'è una stanza in muratura, con tanto di stufa a legna e finestra.

Ma, muratura o non muratura, il concetto di cucina non cambia molto: la stanza è una specie di bolla chiusa in cui il fumo di anni ha depositato una spessa coltre di nero denso su pareti, mobili e pavimento. E' come entrare dentro la cappa di un camino. E, in mezzo al nero che ricopre tutto, un bagliore caldo di legna che brucia, da mattina a sera. La stufa, un tavolino e un paio di piccoli bracieri di metallo.

Tutto quello che devi fare è smettere (subito) di pensare alla cucina con i tuoi rigidi, inutili canoni di igiene e pulizia.... Jokoni è qualcosa d'altro. E' un luogo aperto al passaggio di persone, capre, cani, anatre, galline... qualche topolino. C'è addirittura un ingresso preferenziale: un foro nel vetro della finestra, attraverso cui di solito si infilano i piccioni per andare a rubare riso e mais.

Le stoviglie stanno fuori, giorno e notte, ad asciugare su un ripiano di cemento, dove aguzzando la vista puoi individuare ogni giorno nuove e perfette cagatine di topo (o di gallina, a piacere).

Davanti alla porta della cucina c'è un'enorme stuoia colorata. Su quella stuoia le persone che ruotano attorno alla parrocchia ogni giorno siedono, ridono, mangiano, riposano, cucinano, si fanno le treccine, puliscono frutta e fagioli, stirano i vestiti con ferri pieni di brace...

All'inizio è come un miraggio, quella stuoia. Qualcosa a cui tu, povera bianca relegata al tuo “normale” tavolo all'interno della casa dei preti, non potrai mai aspirare.

Invece ecco che magicamente un giorno ti si dischiude un invito a colazione. Proprio lì, sulla stuoia. Colazione a base di patate dolci, fagioli (mangiati rigorosamente con le mani) e un tè che sa di fumo. Ha un effetto devastante sentirsi accolti su quella stuoia. E' come un muro che si abbatte.

E da quel momento ci tuffiamo anche noi nel flusso di persone, capre e galline. Per parlare, per ridere, per assaggiare frutta nuova, per farci intrecciare i capelli, per imparare canzoni in Lugbara, per scaldare sul braciere una ridicola caffettiera italiana (e immancabilmente squagliarne il manico sul bordo caldo...).

Ma mu jokoni'a” (Vado in cucina...).

La notte, dalla nostra amaca sotto le stelle, sbirciamo dentro. Quando la perenne cappa di fumo dentro la stanza si è abbassata un po', qualcuno stende la propria stuoia sul pavimento, spegne la candela e si addormenta lì al caldo...

Cibo

La stanza da pranzo è semplice: ci sono un lungo tavolone, un mobile di legno e un treppiede con un grande orcio nero pieno d'acqua, coperto con un telo. Prima di ogni pasto Rosie riempie una caraffa con quell'acqua e la appoggia su un piccolo tavolino, accanto ad una bacinella, dove puoi lavarti le mani prima di mangiare (e dopo, visto che i tovaglioli non sono previsti...).

Il pezzo forte è lo scarcassato frigorifero a gas, oggetto inconsueto quanto inutile, visto che il gas per alimentarlo non c'è. Ma dal momento che ai preti sembra piacere comunque molto l'idea di piazzarci dentro interiora, teste di maiale e quant'altro, l'innocuo frigorifero si trasforma in una pestilenziale camera di morte... E quando lo apri per metterci le tue bottiglie di acqua minerale (unico lusso occidentale a cui abbiamo deciso di non rinunciare) devi stare bene attento a distogliere contemporaneamente vista e olfatto dal suo contenuto, possibilmente senza dare troppo nell'occhio e rischiare di offendere qualcuno...

Colazione, pranzo, cena: un ritmo costante che scandisce le giornate. I pasti seguono un rituale preciso, sempre uguale, anche nel menù. Rosie dispone tutte le pentole sul tavolo, ognuna in una posizione precisa, sempre la stessa. Ci sono il riso, l'ignassa (una polenta di farina di kassava), le verdure cotte con le arachidi, gli immancabili fagioli, a volte il maiale o la capra, e tutta la frutta che ti può venire in mente di assaggiare. Poi copre tutto con teli bianchi contro le mosche.

Prima di mangiare si prega (ebbene sì...!). Una breve e indolore benedizione in inglese, fatta in piedi a capo chino, all'inizio un po' imbarazzante, poi sempre più normale... almeno quanto vedere Padre Kennedy che mangia tutto con le mani, come tutti gli africani. Poi il telo viene sollevato dolcemente e ci sediamo a mangiare, stando sempre bene attenti a cosa e quanto mettere nel piatto, visto che l'idea di lasciarci dentro qualcosa di avanzato è semplicemente impensabile. C'è una specie di processo inevitabile, istintivo. Nonostante la noia dei sapori sempre uguali, la mancanza di varietà e di sorpresa... Nonostante le innumerevoli battute fatte ogni giorno sollevando i piccoli coperchi (“mmm... che ci sarà oggi??”), questo cibo ha un valore incredibilmente diverso, anche per noi.

African people

Questa gente è un regalo.

Non è facile cercare di spiegarlo, di trasmettere la loro forza, la solidità, il valore.

C'è una differenza abissale fra questo popolo e il nostro. Lo so, è un'ovvietà... ma ha un impatto profondo su di te, quando ti fa rendere conto di quanto marciume ti porti addosso senza neanche esserne consapevole. Una muffa di condizionamenti, diffidenza, fretta, noncuranza, superficialità. Qui non c'è niente di tutto ciò.

La cosa che colpisce per prima è l'apertura, l'atteggiamento nei confronti della diversità (noi, in questo caso...). C'è una disponibilità, una forma di accoglienza profonda, che è un abbraccio.

Non dipende solo dalla nostra posizione, dal fatto che siamo qui per aiutare e che molti di loro ci vedono come un'opportunità. C'è anche questo, è vero. E spesso bisogna fare attenzione a come muoversi, cosa dire (e ancora di più cosa NON dire), prevenire le richieste, le fregature.

C'è chi ti chiede dei soldi solo perché hai fatto una foto ad un albero, chi cerca di fregarti e farti pagare il triplo del normale, chi si inventa false tragedie familiari per poterti chiedere del denaro.

Ma c'è qualcos'altro, soprattutto lontano dalle città: un'accettazione senza riserve, una tendenza istintiva alla condivisione, una serenità d'animo, che sono qualcosa di innato in questa gente. E che ti lascia senza fiato.

Mentre cammini da solo lungo una sentiero in mezzo alla campagna tutti - ma proprio tutti - quelli che ti incontrano ti sorridono, ti salutano, ti parlano, anche solo un attimo, anche solo per chiedere il tuo nome. Qualcuno è in mezzo al campo a lavorare la terra, o seduto in terra davanti alla capanna, ma quando ti vede arrivare ti viene incontro, con quella lentezza serena, solo per stringerti la mano e dirti “Karibu” (benvenuto).

La stessa serena accettazione la applicano alla loro esistenza. Qui la vita non è facile, la gente non ha nulla, è molto diverso dal Kenya. In compenso ci sono l'AIDS, la malaria, l'ebola e tutto quello che ti può venire in mente. Molti si ammalano, quasi nessuno di loro è in grado di curarsi, e molti muoiono (ed è impressionante la frequenza con cui si sentono funerali, considerando che vengono fatti nelle case private e che attorno a casa nostra non ci sono poi così tanti villaggi...).

La realtà la tocchi con mano, ma difficilmente riesci a vedere nelle persone quella che noi chiamiamo “sofferenza”.

Sembra che questa gente accetti serenamente tutto ciò che gli arriva dal cielo. Con quel sorriso e quell'argento negli occhi. E paradossalmente questo rende tutto ancora più complicato perché non infonde a questo popolo la forza necessaria a reagire, a impegnarsi per il proprio futuro, a spingersi avanti per contrastare il destino. Di sicuro però, ha l'effetto di farti sentire un coglione, quando pensi alla tua eterna insoddisfazione, alle tue lamentele, alla depressione immotivata.

Il contatto con queste persone ti dilata i pori dell'anima. E' buffo, dovresti essere qui per dare loro qualcosa, invece è molto di più quello che ricevi da loro.

Poi ci sono i bambini. Non ho mai visto tanti bambini tutti insieme.

Sono indescrivibili, e hanno un sorriso che ti apre semplicemente in due...

'Ngoni

Primo giorno. Stamani mi sono svegliata prestissimo, tutti dormivano ancora. Sono uscita in pigiama, pensando che sarei semplicemente andata in bagno. Poi però ho cambiato idea, e mi sono avviata lungo un sentiero, in mezzo all'erba alta.

Un sole già tiepido, un vento leggero che ti fa sentire un tutt'uno con l'erba, e soprattutto il silenzio... Un silenzio corposo, fatto di pace e di assenza.

Il sentiero scende piano verso una specie di piccolo rigagnolo stagnante. Laggiù c'è un gruppo colorato di donne che raccolgono l'acqua, riempiendo le loro taniche con una bacinella. Mi sento improvvisamente intrusa, inadeguata, completamente stonata al contesto, così tremendamente “visibile”, esposta, diversa....

Mi fermo, per guardarle da lontano, ma loro mi hanno già visto. Per un attimo le immagino contrariate, infastidite da quella specie di intrusione nella loro vita, nelle loro abitudini. Invece eccole che si aprono tutte insieme nel più accogliente dei sorrisi... mi salutano con la mano, mi fanno cenno di avvicinarmi. Scendo giù, sentendomi un alieno.

Nessuna parla inglese e la conversazione non può andare molto oltre quelle due frasi messe in croce che ho imparato il giorno prima: “'Ngoni”, “Mamuke”, “Ma ru Claudia i”...

Ma ci capiamo. Vogliono essere fotografate, sono divise a metà tra la timidezza e la voglia di mettersi in posa, rigide e serie, davanti all'obiettivo. E quando mostro loro le immagini, ridono e ridono e ridono... non la smettono più di ridere. Ringraziano e ridono, indicando prima il soggetto in carne e ossa e poi la sua immagine catturata sullo schermo.

Poi mi incammino verso casa insieme a loro, in una lunga colonna di taniche bagnate in bilico su teste fiere...

Oluko

Sono venuti a prenderci. Un piccolo comitato di benvenuto che ci accoglie come se ci fossimo lasciati appena ieri. Caricano tutti i nostri bagagli su un vecchio pick-up polveroso e ci accompagnano verso “casa”.

La strada verso Oluko è un disastro di bumps invisibili, polvere rossa e buche che sembrano crateri.

Attraversiamo una campagna già secca, fatta di colline che si rincorrono verso la foschia dell'orizzonte, di gente colorata che si muove a piedi, fermandosi a guardarci passare, di bambini che ci salutano, di capre libere, mucche, alberi di teak...

Oluko è un grande patchwork di tanti minuscoli villaggi fatti di poche capanne ciascuno. Capanne nere, rotonde, con tetti di paglia a punta; ce ne sono tantissime, sparpagliate a gruppetti ovunque. I confini sono talmente impercettibili che sembra che Oluko non abbia un inizio né una fine.. è come un'entità astratta.

La parrocchia è una specie di cuore pulsante, un grande spiazzo ombreggiato dai larghi ombrelli delle acacie, su cui si affacciano una chiesa scortecciata color pastello, una scuola per i seminaristi, una sala per accogliere la gente durante gli eventi e la casa dei preti, ovvero casa nostra. Siamo arrivati.

Mi sembra ancora impossibile pensare che, nonostante la mia avversione naturale per tutto ciò che è "Chiesa", passerò tutto questo tempo proprio in una parrocchia (purché africana e di preti africani...). Ma per l'Assos è la regola. Appoggiarsi a strutture cattoliche pare sia l'unico modo per garantire che i soldi vengano utilizzati in modo corretto e non si dissolvano improvvisamente come per magia.

Ci proverò. Sono talmente felice di essere di nuovo qui che forse potrò farcela...