Jokoni (cucina)

La cucina di Oluko è esattamente il tipo di cucina in cui nessun occidentale sano di mente vorrebbe veder cucinare i propri pasti. Ma è la cucina più appagante che abbia mai avuto. Non è una stanza, ma un piccolo mondo a sé. Un fulcro caldo, fumoso e odoroso attorno a cui ruota la giornata delle persone.

Nei villaggi intorno, la cucina è un semplice braciere di terra battuta all'interno (o all'esterno) della stessa capanna in cui dormono tutti. Alla parrocchia invece no; qui, dove vige il lusso sfrenato, c'è una stanza in muratura, con tanto di stufa a legna e finestra.

Ma, muratura o non muratura, il concetto di cucina non cambia molto: la stanza è una specie di bolla chiusa in cui il fumo di anni ha depositato una spessa coltre di nero denso su pareti, mobili e pavimento. E' come entrare dentro la cappa di un camino. E, in mezzo al nero che ricopre tutto, un bagliore caldo di legna che brucia, da mattina a sera. La stufa, un tavolino e un paio di piccoli bracieri di metallo.

Tutto quello che devi fare è smettere (subito) di pensare alla cucina con i tuoi rigidi, inutili canoni di igiene e pulizia.... Jokoni è qualcosa d'altro. E' un luogo aperto al passaggio di persone, capre, cani, anatre, galline... qualche topolino. C'è addirittura un ingresso preferenziale: un foro nel vetro della finestra, attraverso cui di solito si infilano i piccioni per andare a rubare riso e mais.

Le stoviglie stanno fuori, giorno e notte, ad asciugare su un ripiano di cemento, dove aguzzando la vista puoi individuare ogni giorno nuove e perfette cagatine di topo (o di gallina, a piacere).

Davanti alla porta della cucina c'è un'enorme stuoia colorata. Su quella stuoia le persone che ruotano attorno alla parrocchia ogni giorno siedono, ridono, mangiano, riposano, cucinano, si fanno le treccine, puliscono frutta e fagioli, stirano i vestiti con ferri pieni di brace...

All'inizio è come un miraggio, quella stuoia. Qualcosa a cui tu, povera bianca relegata al tuo “normale” tavolo all'interno della casa dei preti, non potrai mai aspirare.

Invece ecco che magicamente un giorno ti si dischiude un invito a colazione. Proprio lì, sulla stuoia. Colazione a base di patate dolci, fagioli (mangiati rigorosamente con le mani) e un tè che sa di fumo. Ha un effetto devastante sentirsi accolti su quella stuoia. E' come un muro che si abbatte.

E da quel momento ci tuffiamo anche noi nel flusso di persone, capre e galline. Per parlare, per ridere, per assaggiare frutta nuova, per farci intrecciare i capelli, per imparare canzoni in Lugbara, per scaldare sul braciere una ridicola caffettiera italiana (e immancabilmente squagliarne il manico sul bordo caldo...).

Ma mu jokoni'a” (Vado in cucina...).

La notte, dalla nostra amaca sotto le stelle, sbirciamo dentro. Quando la perenne cappa di fumo dentro la stanza si è abbassata un po', qualcuno stende la propria stuoia sul pavimento, spegne la candela e si addormenta lì al caldo...

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