Verso Moyo

Oggi andiamo a Moyo, al confine col Sudan, per portare i soldi delle adozioni all'orfanotrofio della città. Partiamo così presto che uno strascico di notte ci lascia appoggiare finalmente gli occhi sulla Stella del Sud.
La jeep è pronta dal giorno prima, perché qui ogni viaggio in macchina è una mezza odissea, non è che puoi semplicemente “prendere e partire”....Devi controllare tutto, pensare, verificare. L'eventualità di rimanere fermi in mezzo al nulla non è da prendere neanche in considerazione e Gianluca ha fatto un check completo: motore, olio, liquidi, freni e non so che altro... poi ha legato dietro due taniche, una piena di benzina e una piena d'acqua.
Il bagagliaio è pieno di scatoloni: ci sono vestiti per i bambini, medicine, latte in polvere.
I circa 100 km tra Arua e Moyo richiedono quasi tre ore di viaggio, visto che la strada è un misto disastroso di buche giganti e piccole ondulazioni del fondo sterrato, create dal passaggio dei camion che usano questa strada per raggiungere il Sudan e portare aiuti umanitari in Darfur.
Mario dice che i paesaggi ugandesi non sono gran che in confronto alla Tanzania.... Beh, ci posso anche credere (non essendo mai stata in Tanzania...), ma a me sembra che anche l'Uganda se la cavi benino. La strada è dritta, di un rosso mattone, e segue profili infiniti di colline verdi.
Campi, savana, bosco secco, alberi di tek, manghi e jacarande fiorite. Capre dappertutto. E mandrie di strane mucche con enormi corna dritte, in mezzo alla strada.
Passiamo su piccoli “ponti” che assomigliano di più a guadi, costruiti con semplici tronchi appoggiati da una parte all'altra del rigagnolo di turno, mentre bambini nudi interrompono il loro bagno per guardarci passare, con quello sguardo ironico che sembra scommettere in silenzio che non ce la faremo ad attraversare il ponte senza rovesciarci..... (e in effetti, quel camion appoggiato su un fianco e abbandonato al bordo della strada darebbe ragione più a loro che a noi...).
Nessuna macchina. Raramente, qualche Matatu stracarico di gente, oppure qualche bombato camion anni '50 color pastello, pieno di banane, persone, sacchi, scatole, galline...
Gianluca sfoggia le sue capacità di guida. Le sue vecchie gare di corsa nel deserto affiorano magicamente ad ogni curva. In effetti è bravo, bisogna dirlo. E non è facile, le “ondine” sono ingestibili: per non sfasciare le sospensioni della macchina devi tenere una velocità che ti permetta di volare tra una cresta e l'altra (come col gommone!). Ma il confine è sottile: devi andare abbastanza veloce, ma non troppo, visto che dossi e crateri ti compaiono davanti sempre solo all'ultimo secondo.
Oltretutto la jeep sembra avere dei seri problemini di aderenza, e ad ogni curva sbanda di culo, mettendosi quasi per traverso (la sensazione è più o meno quella di finire catapultato fuori strada in media ogni 10 minuti).
Ma lui niente, tranquillo. N
on so come faccia a mantenere la concentrazione: 3 ore con le mani fisse sul volante e gli occhi puntati sul fondo stradale. E nonostante tutto trova la voglia di cantare, di proporre stupidi giochi per passare il tempo (tipo la gara ad individuare una perfetta sequenza di mucca/capanna da tabacco/uomo vestito di rosso/termitaio....).
Quello che ci distrugge è la polvere. Dentro la macchina ci sono piccoli diabolici vortici rossi che ci aggrediscono da tutte le parti. I rivoli di polvere entrano dallo sportello posteriore, dai finestrini, dalle fessure per l'aria, dal cruscotto. Siamo diventati rossi: vestiti rossi, volti rossi, capelli rossi. Raffa si addormenta e sogna di non riuscire a respirare...
Quando arriviamo a Moyo sembriamo un gruppetto di disperati: sporchi, stanchi e straniti.
Sister Maureen ci accoglie, insieme alle altre suore dell'orfanotrofio.
Siamo al Moyo Babie's Home, che accoglie circa 60 bambini da 0 a 6 anni. Qui l'Assos di Cremona ha avviato un progetto di adozioni a distanza e consegna direttamente le quote per i bambini due volte all'anno, insieme ad eventuale materiale raccolto in Italia, medicine, vestiti ecc.
Sapevo che sarebbe stato duro, ma non mi aspettavo che l'orfanotrofio mi colpisse con tanta forza. E' uno schiaffo di dolore, tristezza e impotenza.
I bambini sono molto piccoli, ti corrono incontro con quei loro occhi troppo grandi, nei loro vestiti sporchi e strappati, cercando di aprirti la borsa per cercare caramelle. Sono tantissimi, e sono induriti dalla solitudine.
La mente viene lapidata dalle immagini. Lettini arrugginiti e bambini magri, soli e malati di malaria; piccoli volti e nasini pieni di muco e mosche; una minuscola bimba prematura, nata di 7 mesi e avvolta in un'improvvisata incubatrice fatta di cenci e coperte; sguardi insondabili di chi osserva lo strano Musungu che arriva all'improvviso, portando i soldi per il cibo...
Dobbiamo riempire scartoffie, parlare con la suora, prendere accordi per le adozioni future, fare fotografie per le famiglie adottive. Ma è dura mantenersi “impermeabili”, non ce la faccio. Sono
impantanata in queste immagini, in questo odore di solitudine, di mancanze. E in questo senso di assoluta impotenza.
Sulla strada del ritorno facciamo una sosta ad Aluma, piccolissimo villaggio in cima alle colline dove lo scorso anno l'Assos ha costruito una scuola elementare
e ha avviato il progetto “Adotta un Maestro”, che consente agli insegnanti locali di lavorare alla scuola.
Per raggiungerlo dobbiamo deviare dalla strada, attraverso i campi, scansando mucche e galline e sperando di non trovarci davanti qualche fiume a tradimento. Quando arriviamo alla scuola, proprio in cima alla collina, la voce del nostro arrivo è già corsa di bocca in bocca e molte persone arrivano a salutarci. Aluma è bellissimo, sembra quasi di essere in montagna e non c'è traccia della solita
bassa foschia. C'è una luce dorata e guardando verso valle sembra di vedere il mondo intero.
Ma non c'è tempo, Gianluca preme, scalpita e ci ricarica in macchina quasi subito.
“Non voglio guidare di notte...”.
Poi capisco perché: guidare di notte è una specie di suicidio. Ovviamente l'illuminazione stradale non esiste, ma il vero problema è la polvere. La luce dei tuoi fari rimbalza contro i muri solidi della polvere smossa dai camion, ed è impossibile vedere qualunque cosa. Il che non sarebbe poi un problema impossibile, se solo la strada fosse mediamente definita. Peccato che invece l'asfalto assomigli più al bordo di una lunga foglia mangiucchiata dai bruchi, e che si apra a sorpresa in baratri di mezzo metro di profondità...
Come ciliegina sulla torta, man mano che ti avvicini alla città ci sono persone, bambini, biciclette,
capre, carretti che si muovono nel buio ai bordi delle strade, completamente invisibili. E' incredibile, non ho la più pallida idea di come faccia, ma credo che Gianluca stia guidando A INTUITO. Io non riesco neanche a guardare; per fortuna mi sono seduta dietro.
Raffaella invece è davanti, ed è bianca e muta.
L'incrocio per Oluko stavolta è un miraggio dolce: anche se è notte, conosciamo ormai ogni singolo sasso della strada e possiamo rilassare un po' lo stomaco.
Vado a letto, e non riesco a smettere di pensare ai bambini di Moyo.

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